I viaggi spaziali sono un’evergreen della narrativa in generale, non solo fantascientifica, e Out There: Oceans of Time rappresenta l’ennesima opera videoludica inquadrata in questo filone lungo più di un secolo e mezzo (oltre cinque se consideriamo il pellegrinaggio lunare che Ludovico Ariosto fece compiere al paladino Astolfo nel suo Orlando Furioso).
Correndo il rischio di cadere nella scontatezza, Mi-Clos Studio ha ugualmente tentato di proporre una propria visione riguardo l’esplorazione della famigerata ‘Ultima frontiera’, ottenendo un risultato che seppure lontano dalla definizione e dall’aspirazione di essere un capolavoro sa essere in grado di soddisfare numerosi palati. Questo perché Out There: Oceans of Time costituisce di fatto un punto di contatto tra diversi generi videoludici, con una particolare concentrazione per l’appunto sull’esplorazione e, in egual misura, sulla gestione.
Out There: Oceans of Time, un viaggio lungo millenni nella finzione ma otto anni nella realtà
Prima di parlare un po’ della trama di Out There: Oceans of Time è opportuno delinearne la gestazione, la quale è stata lunga e ponderata. Questo titolo è infatti l’ultimo esponente di un’IP nata in seno alla stessa Mi-Clos Studio nel 2014, anno di pubblicazione dell’originale Out There, il quale era un titolo 2D sviluppato da sole tre persone dal gameplay essenzialmente identico a quello del titolo che ti presentiamo quest’oggi.
Ad esso fecero seguito rispettivamente una riedizione chiamata Out There: Ω Edition (2015) ed una visual novel nota come Out There Chronicles (2017), fino ad arrivare al nostro protagonista, il quale è il frutto del lavoro di una software house ormai cresciuta contante un team di venti persone.
Mentre il primo Out There era incentrato sul peregrinare intergalattico di un astronauta solitario, in Out There: Oceans of Time la situazione è ben diversa e per certi versi molto più complessa. Come numerosi titoli fantascientifici, la storia si apre con l’umanità in fuga dalla terra alla ricerca di una nuova casa dopo che il sole si è misteriosamente spento. La nostra specie affronta così un’odissea della durata di migliaia di anni a bordo di una moltitudine di arche, molte delle quali finiscono alla deriva nella spazio profondo.
Alcune navi, tuttavia, hanno maggiore fortuna, riuscendo a trovare mondi abitabili e a fondare nuove civiltà, fino ad incontrare, inevitabilmente, altre forme di vita senzienti ed intelligenti, molte delle quali rendono culto ad una specie superiore nota come Cubi divini, esseri dall’aspetto di enormi cubi luminescenti che esercitano un enorme influenza sulla Galassia (non viene specificato di quale galassia si tratti, se la nostra Via Lattea o qualche altra). Scopo ultimo di queste supposte divinità è, citando testualmente il gioco: “unire tutte le specie, abolire la violenza ed eliminare il concetto di territorialità“.
Tuttavia, non tutte le specie si piegano alla volontà dei Cubi divini. Una in particolare, la più ribelle e bellicosa di tutte, è quella dei Signori, alla cui guida c’è l’Arconte, uno spietato tiranno in preda ad un delirio di onnipotenza.
Dopo una strenua caccia, finalmente egli viene catturato e condannato alla prigionia nel mondo-prigione noto come Mausoleo dell’eternità. A ricevere il compito di scortarlo in loco è il capitano Nyx della nave Vanguard in compagnia del fidato secondo Sergeï.
Durante il viaggio la Vanguard subisce un massiccio attacco da parte di una flottiglia dei Signori, che riesce a liberare l’Arconte, determinato più che mai a perseguire le sue mire di dominio sull’intero creato.
Riusciti a salvarsi grazie ad un guscio di salvataggio, Nyx e Sergeï atterrano su un piccolo pianeta, ove riescono a richiamare e a rimettere in sesto una navicella a bordo della quale dovranno cominciare una nuova odissea onde fermare l’Arconte, il quale ha riservato loro una terribile sorpresa.
Chi non risica non rosica, ma attento a non risicare troppo!
Come anticipato, Out There: Oceans of Time è un miscuglio di generi videoludici sui quali spicca prepotentemente il roguelite. Prepotentemente in quanto (è il caso di anticiparlo) i riavvii ci saranno e saranno molti prima di comprendere al meglio come gestire le proprie esplorazioni spaziali, vero punto di forza dell’intera esperienza.
Nostro compito principale è quello di spostarci di sistema stellare in sistema stellare. Ciascuno di questi sistemi avrà una stella di tipo diverso (nana, supergigante e così via) così come diverse tipologie di pianeti. Esse sono essenzialmente tre: pianeti rocciosi, pianeti giardino e giganti gassosi. Di fondamentale importanza è calcolare quando è il caso di visitare un determinato tipo di pianeta, in quanto ogni movimento della nave, che sia all’interno o all’esterno di un singolo sistema, ha un proprio costo in termini di carburante e di ossigeno.
Proprio carburante e ossigeno sono due delle quattro risorse fondamentali del gioco, insieme all’integrità dello scafo e al morale dell’equipaggio. Visitando determinate tipologie di pianeta possiamo reperire i vari elementi chimici necessari al mantenimento della nave e dell’equipaggio stesso: sondando i giganti gassosi si ottengono idrogeno ed elio, necessari per rifornire il carburante; esplorando pianeti giardino e pianeti rocciosi (o trivellandoli qualora non siano esplorabili) si ottengono piante utili ad ossigenare la nave e minerali adatti a manutenere lo scafo.
Accanto ai numerosi elementi ve ne è uno bonus chiamato Omega, che può essere usato indifferentemente per rifornire carburante, ossigeno o integrità allo scafo. Il morale dell’equipaggio è recuperabile solo ed esclusivamente tramite il compimento di alcune missioni esplorative, le scelte giuste in seguito ad alcuni eventi in game e l’edificazione di alcuni ambienti ameni nell’astronave.
L’organizzazione degli ambienti di bordo rappresenta il versante più gestionale e più insaporito di TBS del gioco. Lo spazio si divide in un numero più o meno equo (e comunque modificabile) di caselle suddivise in tre tipologie: Risorse, Tecnologia e Modulo. La prima tipologia è dedicata all’immagazzinamento di elementi chimici, minerali grezzi e piante; la seconda alla realizzazione di strumenti funzionali alle esplorazioni quali le già citate sonda e trivella, mentre l’ultima a strutture volte a garantire all’equipaggio la possibilità di condurre una vita dignitosa e salutare anche a bordo nave.
Inizialmente composto dai soli Nyx e Sergeï, l’equipaggio può essere espanso fino ad un numero totale di sei membri, umani o alieni che siano. Ogni membro dispone di una propria classe alla maniera degli RPG (ma senza stat). Sono ancora una tre in tutto: survivalista, ingegnere e xenolinguista, focalizzati rispettivamente su difesa ed esplorazione; manutenzione e raccolta risorse ed infine diplomazia, commercio e medicina.
Il combat è totalmente automatizzato, quindi, se sei alla ricerca di azione oltre che del continuo rischio game over, Out There: Oceans of Time potrebbe non essere un titolo adatto a te.
Nel corso dell’esplorazione è fondamentale mantenersi in buoni rapporti con le varie razze aliene che incontreremo. Ciascuna di esse parla lingue che potremo imparare solo poco alla volta ed è in possesso di materiali che se acquistati al momento giusto potrebbero fare la differenza tra la salvezza e il game over.
Qualche singhiozzo dove non deve esserci
A livello estetico non abbiamo assolutamente nulla da rimproverare a Out There: Oceans of Time, anche perché il suo status di titolo procedurale gli garantisce un’ottima varietà in termini di ambientazioni, con le dovute limitazioni trattandosi comunque di un prodotto finito e dunque limitato, sebbene aggiornabile (e.g. alcune ridondanze per quanto riguarda la collocazione delle risorse nelle singole mappe).
Sul versante tecnico invece bisogna segnalare una certa semplicità grafica (qualche poligono di troppo si percepisce) e dei fastidiosi rallentamenti in fase di caricamento, resi ancora più incomprensibili a causa della grafica stessa, la quale a conti fatti sembra rimasta al 2008.
Come navigazione e input sembra tutto nella norma, anzi, si può dire che la navigazione stessa sia uno degli elementi meglio orchestrati del gioco, anche in ragione della sua natura semi-gestionale, che come si sa impone chiarezza e agevolezza ad ogni elemento a schermo.
A coronare il gioco c’è un sonoro ben sincronizzato e coerente col genere, insieme a musiche che fanno eco all’ambient elettronica dei tempi andati. Unica pecca dell’esperienza uditiva è il doppiaggio quasi inesistente, limitato a pochi momenti di gioco.