Fino ad oggi, probabilmente, chiunque di noi avesse sentito le parole Paradise Lost sarebbe riandato con la mente al celebre poema di John Milton, la cui essenza è racchiusa nella celebre frase pronunciata da Satana “meglio regnare all’inferno che servire in paradiso”.
Da oggi invece lo stesso titolo assumerà connotati meno eterei e più vividi, grazie all’ultimo lavoro di PolyAmorous, che pur mutuando parte della filosofia dell’opera di Milton dà vita a un’avventura del tutto inedita che andremo a scoprire nel corso di questa recensione.
Nessuna luce: piuttosto, visibili oscurità
Già il titolo stesso è un’anticipazione di quello che troveremo nel gioco; il paradiso perduto, infatti, è tanto quello del giovane Szimon protagonista del gioco, quanto quello dell’umanità sia in senso generale, quanto di quella parte del genere umano protagonista delle vicende che scopriremo man mano che avanziamo nel gioco. Raccontare la trama per filo e per segno sarebbe delittuoso per un titolo che va giocato e non raccontato, per cui mi limiterò ad una narrazione per grandi linee.
Le premesse da cui muove il gioco sono abbastanza classiche: ci troviamo negli anni ’80 di una linea temporale ucronica in cui la Germania non ha perso la guerra. In realtà non l’ha neppure davvero vinta: gli Stati Uniti non sono mai entrati nel conflitto, che è rimasto quindi confinato all’Europa, e i tedeschi ad un certo punto hanno deciso di nuclearizzare il Vecchio Continente, riducendolo ad una landa desolata e quasi interamente priva di vita.
In questo ambiente si trova a crescere Szimon, il nostro alter ego, che vive con la madre in quello che rimane dei territori polacchi; i due sono costretti a rifugiarsi nei bunker rimasti almeno parzialmente interi finchè un giorno, come scopriremo più avanti, la madre del ragazzo muore.
Come chiunque nelle sue condizioni, Szimon decide di lasciarsi tutto alle spalle e una volta seppellita la mamma parte in cerca di risposte, non sapendo neppure lui dove andare ma guidato da una foto che immortala la madre insieme a un uomo, che potrebbe essere suo padre.
Il suo girovagare lo porta ad entrare in un bunker, non è chiaro quanto casualmente, che corrisponde a quello della foto in suo possesso: in pochi minuti, prendendo un ascensore, scopriremo che in realtà si tratta della base di un’utopia tedesca in cui Hitler e il suo stato maggiore hanno portato alcuni dei migliori cittadini di razza ariana che si sono distinti nelle arti e nei mestieri, con lo scopo di fondare una nuova società in grado di sopravvivere alla guerra e uscire allo scoperto al momento giusto, per spazzare via il nemico una volta e per tutte.
Avanzando in quello che è un vero e proprio viaggio emozionale, scopriremo che ovviamente le cose non sono andate per il verso giusto. Tutto, dai documenti che troveremo sparsi in giro, agli abiti e agli oggetti lasciati dove sono stati utilizzati per l’ultima volta, ci suggerisce che gli abitanti della città sotterranea sono spariti all’improvviso e non in maniera pacifica.
Proprio quando Szimon pensa di essere del tutto solo, si imbatte in Ewa, una donna misteriosa che diventa in breve il suo mondo e che diventa l’unico motore che lo spinge ad agire in una storia che lo porta ad addentrarsi nelle miserie (tante) e nelle nobiltà (poche) dell’animo umano e che mescola storia, fantascienza ucronica (con tante tecnologie assurde da scoprire) ed elementi mitologici tipici dell’est Europa.
Ad accompagnarci nel nostro cammino verso il finale, come ricordato dai titoli di ogni sezione, e a segnare la crescita di Szimon come personaggio, c’è l’elaborazione del lutto per la perdita subita; il gioco infatti si articola in 5 segmenti, ognuno dei quali dedicato a una delle fasi teorizzate per la prima volta nel 1969 dalla psichiatra Kubler Ross.
Il resto della storia, come ho già detto, va vissuto in prima persona per apprezzare una narrazione che ritengo davvero avvincente, in grado di catturarci dal primo all’ultimo minuto di gioco come accade raramente, con un finale che viene deciso dalle scelte che faremo nel corso della partita.
Il gameplay
Dal punto di vista videoludico, Paradise Lost è un walking simulator, nè più nè meno. Non ci sono nemici, non ci sono azioni complesse da eseguire: tutto quello che dobbiamo fare è camminare per gli ambienti che compongono la base (ironicamente identificata con un simbolo che ricorda quello della pace) e concentrarci per non lasciarci sfuggire documenti, file audio e tutto quanto ci possa aiutare a comprendere quanto accaduto. Le azioni contestuali di arrampicata o scavalco vengono compiute automaticamente da Szimon, a noi rimane solo da attivare i pulsanti o aprire porte e cassetti.
E’ sicuramente una formula di gioco particolare, che potrebbe fare storcere il naso ai puristi dell’azione, ma è funzionale al tipo di storia che gli sviluppatori hanno voluto raccontare. Del resto il tutto deve scorrere in maniera liscia, coinvolgendo il giocatore senza rallentarlo, al pari di un film interattivo.
Con questa considerazione in mente, appare ovvio che non avremo a che fare con enigmi troppo complessi e che la strada da prendere sarà sempre sotto i nostri occhi. Nei rari casi in cui non capiremo immediatamente cosa fare o dove andare, basterà fare un rapido giro dell’ambiente per trovare il giusto interruttore da attivare o (più raramente) l’oggetto da raccogliere. A facilitare ulteriormente il nostro compito, tanto i punti interattivi quanto i passaggi da utilizzare sono identificati da un cerchio visibile anche a distanza.
E’ tutto qua e non potrebbe essere diversamente, ulteriori aggiunte sarebbero semplicemente superflue.
Segnali di Stile
Nei walking simulator la componente relativa al design è molto importante e in questo Paradise Lost non fa eccezione; pur non trattandosi di una comparto grafico all’ultimo grido, il motore di gioco basato sull’Unreal Engine 4 fa la sua figura.
I vari ambienti, per lo più statici dal momento che neppure le sedie si smuoveranno al nostro passaggio, riescono ad essere sufficientemente rifiniti e più in generale passeggiare per questa città abbandonata e decadente con ambienti tanto sfarzosi quanto retrofuturibili, che per certi versi ricorda la Rapture di Bioshock, è veramente appagante e riempie gli occhi del giocatore.
Molto azzeccato è anche il comparto sonoro: per la maggior parte del tempo sentiremo solo i nostri passi e i rumori ambientali, tuttavia alcuni passaggi vengono sottolineati e accompagnati da struggenti note di violino che ci riportano alla mente le melodie suonate dai superstiti sulle macerie delle città devastate dal conflitto o dai deportati in quello che probabilmente sarebbe stato il loro ultimo viaggio.