Credo di constatare l’ovvio quando dico che la questione delle microtransazioni in game sia un tema caldo, diventato sempre più rovente negli ultimi anni, e che interessa approfondire a ognuno di noi. Presenti anche in videogiochi dotati di un prezzo d’acquisto, questi piccoli pagamenti hanno trovato terreno molto fertile soprattutto nei free to play. Di recente, è stato stabilito che la presenza di questa meccanica di acquisto interna al gioco venga indicata con un apposito simbolo della classificazione PEGI.
Nelle notizie di cronaca sono stati riportati episodi che vedono giocatori, anche molto giovani, spendere centinaia o addirittura migliaia di euro, dollari o sterline per piccoli acquisti in gioco per sbloccare item utili per ottenere un vantaggio nell’esperienza di gioco o anche solo elementi di natura puramente estetica; un esempio, per rendere più concreto questo discorso, ce lo dà un ragazzo in UK il quale, all’insaputa dei genitori, ha speso ben 6000£ in microtransazioni.
Ma come mai ci si casca?
I giocatori più avveduti probabilmente penseranno, leggendo queste righe, che il problema in questione non li riguard direttamente, perché sanno controllarsi e sanno adeguatamente evitare queste trappole psicologiche. E in un certo senso di questo si tratta, come spiega bene un redattore di Horizon Psytech & Games nel suo articolo dedicato a questo argomento. Senza andare nello specifico, per cui rimando invece alla lettura del testo di riferimento, quel che emerge è che le microtransazioni trionfano perché presentate in modo che si crei un distacco dalla spesa della moneta reale e una conversione della stessa nella moneta virtuale, come i V-bucks in Fortnite. In questo modo, detto in parole profane, non ci si accorge di spendere, o ancora peggio, non ci si accorge di quanto si spende. Tutto questo è alimentato dal desiderio, una volta che abbiamo comprato il gioco, di non sentirsi svantaggiati rispetto agli altri giocatori, venendo quindi imboccati dal gioco stesso a fare questo tipo di acquisti, vuoi perché altrimenti devi aspettare troppo tempo in cooldown per poter avviare una nuova partita (come in diversi giochi per smartphone), vuoi perché altrimenti non disponi del fucile più potente per competere con gli altri, o addirittura il tuo avatar non si mostra così “figo” come lo è quello degli altri. Un ultimo aspetto che accenno solamente, ed è uno dei motivi che dà maggior spinta ad inserire questo meccanismo nella classificazione PEGI, è quello del lootbox, che incarna una sorta di “innocente” lotteria, fungendo da forte incentivo per proseguire con acquisti successivi, più o meno analogamente a coloro che comprano quel biglietto del “gratta e vinci” in più per tentare la fortuna.
Tuttavia, ne è un esempio Star Wars Battlefront II, possono sorgere non poche polemiche al riguardo. Va considerato infatti, che i giochi che ottengono maggiori vantaggi dalle microtransazioni sono quelli che riescono a creare un sistema che ricompensi il giocatore quando fa l’acquisto in game, ma che non lo punisca eccessivamente altrimenti, cosicché sia invogliato, proprio per un miglioramento palpabile e fortemente percepibile in termini di esperienza, ad aprire ancora una volta il portafogli. Questo non è successo col titolo EA dedicato a Star Wars proprio perché, inizialmente, senza cedere alle microtransazioni il gioco risultava troppo punitivo.
Alla luce di tutto ciò, che ripeto e solo un accenno rispetto alla complessità che si cela dietro ad una macchina che macina soldi come le microtransazioni, sembra sacrosanto e giusto che nella classificazione PEGI compaia anche questo simbolino “in-game purchases”, per mettere in guardia giocatori e soprattutto genitori, che spero un giorno capiranno davvero l’importanza della videogame education in questo senso, per portare a casa i titoli desiderati con una consapevolezza diversa e ben più profonda.