Il mercato di nicchia, quello indie, spesso regala perle che sono tali perché completamente slegate dalla grammatica del videogioco che DEVE piacere al maggior numero possibile di persone. Benché ci siano titoli interessanti nel sottobosco indie, per realtà virtuale sono i giochi ad alto budget a funzionare al meglio, spesso.
Oggi porto alla tua attenzione un titolo, sì low budget, ma che merita grande considerazione, soprattutto da parte di chi è un poco più grandicello. Parlo, come avrai letto dal titolo, di Pixel Ripped 1995, titolo edito e sviluppato da ARVORE, ideato da Ana Ribeiro e sequel di Pixel Ripped 1989, un altro gioco VR che si prefiggeva di riportarci ai fasti dell’8-bit.
In Pixel Ripped 1995, verremo costretti a fare un vero e proprio salto temporale, fino a raggiungere l’età dei 16-bit per arrivare persino ai 32-bit!
Non serve aver giocato al prequel per godersi Pixel Ripped 1995, anche perché la prima sconfitta inflitta dalla protagonista Dot a Cyblin Lord, un goblin capace di sconfinare nel mondo reale da quello digitale grazie ad un artefatto magico, viene riassunta nei primi 5 minuti di gioco.
Pixel Ripped 1995, fra videogioco e realtà
Pixel Ripped 1995 è un viaggio nel tempo al sapore di nostalgia, in grado di farti vivere un piccolo riassunto di tutto ciò che ha reso fenomenale la quarta generazione di console: abbiamo platform, picchiaduro a scorrimento, rpg isometrici, metroidvania, non manca davvero nulla.
Il titolo riesce anche a rivisitare lo stile narrativo del gioco precedente in cui, impersonando una bambina e stando fra i banchi di scuola, dovevamo aiutare DOT nella sua impresa mentre cercavamo di non farci beccare dalla maestra.
Il sequel non sarà mai così ripetitivo ed anzi punterà il tutto per tutto nell’offrire un’esperienza varia e sempre divertente. Certo, in realtà ci sono alti e bassi e c’è anche qualche difetto di cui tratteremo più avanti, ma bisogna ammettere che Pixel Ripped 1995 riesce lo stesso ad essere un bellissimo viaggio nei tempi andati, ed è stato in grado di farmi sentire bambino e sorridere dall’inizio alla fine.
Nei 6 livelli, tutti diversissimi fra loro, giocheremo stage che si ispirano palesemente a vecchie glorie del passato come Castlevania, Super Mario World, Streets of Rage, The Legend of Zelda: A Link to the Past, Sonic the Hedgehog, Star Fox, Super Metroid e addirittura Crash Bandicoot. Il tutto viene condito con un’ironia piacevolissima e riferimenti alla cultura pop dell’epoca palesemente ridicolizzati, come nel caso degli Xenomorfi su moto o con richiami più agrodolci, come un palese Blockbuster o la presenza di cabinati.
Come nel titolo precedente l’idea di design che predomina e rende particolare questo titolo è quella di poter interpretare un gioco del 1995 tramite gli occhi di un bambino, fondendo la realtà digitale del gioco a quella del overworld, creando una sorta di Inception videoludico. L’idea di renderci un io giocante all’interno di un gioco stesso la trovo di per sé fenomenale e possibile solo grazie all’utilizzo della realtà virtuale, consente di immedesimarsi all’interno del nostro protagonista e quindi di diminuire la distanza fra avatar e chi gioca.
In realtà questa meccanica non serve solo a farci rivivere le rotture della mamma che ci costringeva a spegnere il gioco (con conseguente pianto perché non avevamo salvato), ma implementa anche delle soluzioni di gameplay che aiutano a rendere il gioco interessante e vario. Molto spesso, come nel capitolo precedente, dovremmo distrarre gli adulti; se non riusciremo a spostare la loro attenzione in tempo, verranno a spegnere la console costringendoci a ripartire dal checkpoint precedente.
Parliamoci chiaro, i vari stage di per sé non sono considerabili dei veri e propri giochi, ma solo una pallida imitazione che, seppur divertente e caricaturale, altro non è considerabile che un abbozzo di un videogioco dell’epoca. Un problema, questo, che viene quasi completamente mitigato dall’interazione fra gioco e “mondo reale”, che sfocia spesso in bossfight che richiedono l’utilizzo sia del pad sia delle nostre mani oppure in situazioni in cui dovremo prestare attenzione a ciò che accade attorno a noi anche mentre giochiamo!
Per cui, nonostante si potesse fare qualcosa in più per la profondità dei vari livelli di gioco, probabilmente un’accortezza che avrebbe giovato alla longevità del titolo, non ritengo che questo elemento vada a rovinare il mashup fra overworld e videogioco. Il motivo è presto detto, Pixel Ripped 1995 non è un particolare emulatore di vecchie glorie in realtà virtuale, bensì una folle, ironica e nostalgica avventura che va vissuta tutta d’un fiato e che sono certo, nel caso in cui facessi parte del target a cui si riferisce, arrivato ai titoli di coda ti lascerà un bel sorriso stampato sul volto.
Grafica, immersività e comfort
Partiamo da una precisazione, ovvero che dal primo capitolo lo sviluppatore ha fatto dei buoni passi in avanti per quanto riguarda la grafica di gioco. Nonostante tutto però, è mio dovere farti notare cosa non funziona e in questo caso, per un gioco che cerca di farti immedesimare così tanto, al di là di animazioni poco convincenti e modelli si cartooneschi ma ancora da migliorare, mancano alcuni dettagli che riducono drasticamente l’immedesimazione.
Al di là dei loro script i personaggi sembrano reagire poco a quello che facciamo. Anche l’interazione con l’ambiente è abbastanza minima, ma può essere un bene. Il giocatore nell’overworld non avrà mai la possibilità di muoversi e questo, nonostante possa essere visto come una mancanza, in realtà viene incontro a chi ha problemi di motion sickness; a parte un momento (abbastanza epico) in cui saremo in macchina e in determinate fasi di transizione, staremo per la maggior parte del tempo fissi davanti a uno schermo.