Parte oggi su iCrewPlay una nuova rubrica dal titolo “Player One”, il cui scopo è quello di tratteggiare in ciascuna puntata un diverso personaggio appartenente alla storia dei videogiochi, sia esso un protagonista di un’intera saga o anche solo un personaggio minore di una missione secondaria di un singolo gioco, che per qualche motivo vale la pena essere ricordato.
E’ innegabile che molto spesso il protagonista di un titolo sia stato decisivo nel successo del gioco stesso, e che in molti casi abbia anche risollevato le sorti di una saga anche solo reinventandola.
Come è anche vero che ci siano stati personaggi dimenticati dai più, che magari hanno avuto un ruolo marginale all’interno di una storia ma che per qualche motivo sono entrati nel cuore di noi videogiocatori.
“Player One”, parla proprio di questo.
E abbiamo deciso di partire davvero con il botto, con un personaggio che definire iconico sarebbe probabilmente riduttivo, il protagonista di una saga entrata nella leggenda del mondo videoludico, che ha appassionato, rivoluzionato, innovato, emozionato.
E ha fatto tutto questo, senza nemmeno dire una parola.
Ma andiamo con ordine…
“Oggi è il mio primo giorno di lavoro.
Mi sento emozionato come forse non mi capitava dai tempi dell’ Università. A tal proposito, sarò grato per sempre al prof. Klenier per avermi dato la grande opportunità di lavorare presso il laboratorio di “materiali anomali” alla Black Mesa, praticamente un sogno che si realizza!
Devo sbrigarmi, non posso assolutamente permettermi di non essere puntualissimo. Il capo Breen ha molta fiducia in me, e io non lo deluderò per nessuna ragione al mondo…”
Si svegli, dott. Freeman…
Mi è piaciuto lavorare di fantasia per immaginare quali potrebbero essere state le parole del dott. Gordon Freeman la mattina del suo primo giorno di lavoro presso Black Mesa, la gigantesca struttura costruita all’interno di silos usati durante la Guerra Fredda e riconvertiti ad uso civile, in cui vengono svolte svariate tipologie di esperimenti scientifici.
La natura delle attività non è nota al pubblico, e addirittura nemmeno a chi ci lavora al suo interno. Lo stesso Freeman, che si occupa della divisione “materiali anomali”, non ha ben chiaro quale sia la provenienza di tali materiali, e nemmeno immagina le conseguenze drammatiche che saranno scatenate di lì a poco in seguito al forzare di alcuni esperimenti portati avanti proprio all’interno del suo laboratorio.
In seguito ad un ordine di Wallace Breen, capo di Black Mesa, lo spettrometro viene portato al 105%, generando una cascata di risonanza che causa l’apertura di un portale dimensionale e la successiva invasione aliena da una dimensione sconosciuta.
Gordon Freeman si troverà catapultato in uno scenario apocalittico in cui con le poche risorse a disposizione si vedrà costretto a lottare con mostruose creature (e non solo…) per raggiungere la superficie e così la salvezza. O almeno, questa è la sua speranza.
Per quei 2-3 che non sanno di che cosa parliamo, questo è l’incipit di Half-Life, sparatutto in prima persona che è incastonato di prepotenza nella lista di quei giochi che hanno sconvolto e rivoluzionato l’intero settore e di cui, a distanza di oltre 20 anni dall’uscita del primo capitolo, ancora si parla.
La portata rivoluzionaria del titolo si può spiegare in maniera semplice, quasi banale: moltissimo di quello che oggi vediamo e diamo per scontato negli fps, deriva dal Capolavoro di Valve.
Sia il primo che il secondo capitolo, usciti rispettivamente nel 1998 e nel 2004, rappresentano delle vere e proprie pietre miliari.
Half-Life come inno alla normalità
Volendo rimanere solo al primo, basti dire che fino a quel momento gli sparatutto non avevano un contesto narrativo, ma si veniva catapultati in un determinato ambiente e il personaggio doveva fare mattanza di nemici senza un motivo particolare, ma solo per il gusto ludico che trasmetteva al giocatore.
Con Half-Life, tutto questo viene stravolto, e per la prima volta ci viene raccontato nel dettaglio il PERCHE’ il protagonista è costretto a compiere determinate azioni.
Già, il protagonista. Perché se Half-Life ha avuto questo successo straordinario è anche grazie al complesso carisma del suo protagonista.
Per la prima volta in un gioco in cui l’azione la fa da padrona, non vestiamo i panni di un super soldato, di un marine, di un eroe invincibile esperto nell’uso di qualsiasi arma. No.
Vestiamo i panni di uno…scienziato. Un uomo normale, un impiegato che può essere chiunque di noi il suo primo giorno di lavoro, quindi decisamente più avvezzo all’uso di un Pc e di una penna a sfera che di un fucile mitragliatore.
E, particolare che a mio modesto parere risulta davvero geniale, Gordon Freeman è completamente muto. Nel senso che non dice una sola parola per tutto il gioco. Quindi niente dialoghi “cool”, niente frasi ad effetto, niente grida di battaglia. Niente di niente.
E per quanto possa sembrare strano, proprio questo aspetto risulta essere uno dei più efficaci e caratterizzanti dello stesso personaggio, perché contemporaneamente ci mette in condizione di entrare da subito nell’atmosfera del gioco stesso.
Il titolo infatti si apre con una lunga sequenza (non in cg, e vista sempre dagli occhi di Gordon Freeman) di diversi minuti, con il nostro amato scienziato che fa il suo ingresso nell’enorme complesso di Black Mesa, questa misteriosa struttura sotterranea teatro degli eventi.
La narrazione asettica ma efficacissima si sposa alla perfezione con il “mutismo” e probabilmente anche un po’ di smarrimento che circonda il nostro avatar, rendendo quei lunghi minuti introduttivi una delle sequenze comunicativamente più efficaci di tutta la storia dei videogiochi.
La narrativa degli fps viene completamente riscritta
I contrasti che animano la sua figura rappresentano le caratteristiche principali del suo essere memorabile: un protagonista muto all’interno di un contesto così minuziosamente narrato, un uomo qualunque che si vede costretto ad apprendere in pochi minuti l’uso delle armi per aver salva la vita. Chiunque di noi, in modo o nell’altro, si può immedesimare nel dott. Freeman e nella sua voglia di uscire vivo da quel ginepraio di esseri extraterrestri e soldati speciali inviati sul luogo per ripulirlo di ogni traccia e mettere tutto sotto silenzio.
Un inno alla normalità, che diventa straordinarietà man mano che si progredisce nell’avventura, trasformando ad ogni piè sospinto il timido scienziato in un liberatore a cui viene consegnato (suo malgrado) il destino dell’umanità per salvarla dall’invasione aliena.
Il viaggio di Gordon, in un certo senso, è un viaggio dentro ciascuno di noi, verso quella rinnovata scoperta di se stessi e delle proprie capacità che nemmeno si era consci di avere, ma che l’impellente necessità data dalla situazione ci costringe ad apprendere e padroneggiare. Il Gordon che da impiegato diventa guerriero per salvare se stesso e gli altri, è una piccola metafora della vita, di come gli ostacoli siano capaci di trasformarci nella migliore versione di noi stessi e metterci in condizione di combattere contro i nostri peggiori mostri.
Un personaggio assolutamente memorabile, che ha riscritto la narrativa del videogioco e del rapporto tra l’essere umano e l’avatar che controlla, come diretta emanazione di se stesso, il tutto costruito al servizio di uno di quei giochi (e di quelle saghe) che non aver giocato rappresenta un peccato mortale non solo nei confronti del medium stesso, ma dell’arte visiva in generale.
«L’uomo giusto nel posto sbagliato può fare una grande differenza.
Perciò si svegli, Mr. Freeman. Apra gli occhi, e si svegli.»
(G-Man all’inizio di Half-Life 2)