L’articolo contiene pesanti spoiler su Ellie e generici dei primi due capitoli di The Last of Us.
Si è spesso parlato di come il divario che per alcuni insiste tra cinema e videogiochi negli ultimi anni, complice le crescenti possibilità tecniche dei vari hardware immessi in commercio soprattutto nell’ultimo decennio, si stia assottigliando in maniera progressiva.
Quelli che fino a una ventina di anni fa erano considerati “giochini”, stanno via via prendendo sempre più piede nell’immaginario collettivo come produzioni non solo in grado di competere con i colossal del grande schermo, ma addirittura superarli per qualità registica, sceneggiatura e, perché no, performance dei personaggi.
E’ innegabile sostenere che un ruolo importante di questa evoluzione l’abbiano avuto le produzioni di Naughty Dog, soprattutto con l’avvento del primo The Last of Us uscito nel 2013 per PlayStation 3.
Per quei pochi che non lo conoscono, il gioco inizia con un preambolo in cui il protagonista, Joel, fugge dalla sua abitazione con la figlia adolescente Sarah nel tentativo di mettersi in salvo da un’improvvisa e non meglio identificata crisi che sta coinvolgendo la città, e in cui le persone in preda a violenti raptus sembrano uccidersi le une con le altre.
Il tentativo di fuga è fermato da un soldato che, senza remora alcuna, uccide la giovane Sarah subito prima di tentare di fare lo stesso con Joel, salvo essere freddato dal fratello di lui.
In seguito scopriamo che quella violenta crisi non era altro che l’incipit di un’epidemia mondiale causata da un fungo chiamato Cordyceps e che rendeva gli uomini infettati da esso dei famelici mostri cannibali.
La narrazione riparte diversi anni dopo, con le città trasformate in centri di quarantena e l’esercito a guardia dei vari checkpoint all’ingresso e all’uscita delle zone di sicurezza.
Joel, piegato dagli eventi e dal lutto della perdita di sua figlia, è diventato una sorta di contrabbandiere, e il suo prossimo incarico è qualcosa di insolito, e con un nome: Ellie.
La sua missione è portare questa ragazzina appena 14enne in un avamposto della Resistenza, meglio nota come “Luci”, per un motivo non meglio precisato.
Per il cupo e ormai disilluso Joel si tratta però di un lavoro come un altro.
Parte così un viaggio che non è solo la fuga da una realtà che di umano sembra non avere più nulla, ma è soprattutto una riscoperta di se stessi, dei propri valori e di tutto quello che era rimasto sepolto sotto le macerie della vita, che però non era scomparso del tutto.
L’evoluzione del concetto di legame padre/figlia come elemento di gameplay
Se alla prima occhiata di un giocatore disattento quella che stiamo per intraprendere sembra una storia dai connotati scontati e in cui si racconta del “solito” rapporto padre/figlia, in realtà è il modo, la delicatezza assieme alla brutalità con cui viene narrata a lasciare di stucco, un passo dopo l’altro compiuto durante il viaggio.
Se quella creata da Neil Druckmann assume i contorni di una storia dalla rara potenza, il merito è soprattutto dei due protagonisti; Joel ed Ellie si ritrovano forzatamente a percorrere un cammino che li vede dapprima distanti, con Joel che fa di tutto per non rischiare un coinvolgimento emotivo con la giovane ragazza, ed Ellie che con il semplice essere quella che è non fa altro che portarlo involontariamente nella direzione opposta.
E questo progressivo coinvolgimento, questo assottigliarsi delle rispettive distanze emotive tra i due protagonisti è esso stesso una parte integrante di gameplay (che in The Last of Us Part II trova la sua massima espressione), un elemento che da contorno diventa interattivo nella conduzione stessa delle meccaniche di gioco.
E se tutto questo avviene, gran parte del merito è da attribuire proprio alla figura di Ellie, vera co-protagonista del primo e perno di tutto il secondo episodio.
La ragazza appare nel primo gioco dopo l’introduzione, e subito si intuisce che alberga in lei qualcosa di speciale, che scopriremo con il proseguo dell’avventura: è completamente immune al virus del Cordyceps che ha devastato il mondo, rappresentando quindi l’unica possibilità di trovare un vaccino. Il compito di Joel è quello di portarla sana e salva a destinazione, il centro medico della resistenza.
Inizia così un viaggio che ha una doppia valenza: a quello pratico, si coniuga quello emotivo, che salda il rapporto tra i due protagonisti man mano che il loro percorso procede attraverso gli Stati Uniti.
Può sembrare un concept narrativo visto e rivisto, quello del rapporto padre-figlia che si viene a creare tra due estranei, anche molto diversi, ed in effetti inizialmente lo è; a fare la differenza entra in campo la straordinaria capacità di Neil Druckmann e di tutto il team di Naughty Dog di conferire una caratterizzazione dei personaggi assolutamente straordinaria, tale da rendere quello che avviene a schermo completamente credibile.
Lo schema principale per cui questo avviene è lo scontro tra due caratteri così diversi ma alla fine così vicini: Joel un uomo emotivamente consumato e disilluso prima dal dramma della morte della giovane figlia, poi ragionevolmente da quello che è diventato il mondo moderno; mentre Ellie ha un vissuto in cui il mondo di prima di fatto non lo ha mai conosciuto, ma non per questo rinuncia al suo essere una ragazza adolescente, pur nella crudezza del contesto in cui lei, come tutti, sono costretti a vivere.
Quella del primo The Last of Us è una Ellie che ancora viaggia a metà strada tra il suo essere poco più che una bambina, con la curiosità e la spensieratezza che questo significano (almeno in un mondo non dominato dal Cordyceps) e la donna che sarà, costretta già a difendersi da sola perché in molte occasioni è consapevole che tra lei e il nemico di turno, umano o mostro che sia, soltanto uno dei due è destinato a sopravvivere.
Qui abbiamo un primo, brutale impatto con la nostra protagonista: vedere una quattordicenne fin troppo a suo agio con l’uso delle armi e della difesa personale senza alcuna remora ci trasmette da subito quel senso di devastazione, più morale che materiale, in cui siamo calati.
Ma questa crudezza, come si può conciliare con aspetti emotivi che in maniera lenta ma progressiva emergono prima da Ellie e poi anche da Joel, e in grado di cementificare quel legame che troverà la sua massima espressione proprio nel finale del primo capitolo?
Una prima fondamentale risposta è che, per modi ed ovviamente esperienze diverse, nessuno dei due ha perso completamente la propria umanità. E’ ben nascosta, certo. Dimenticata, sicuramente. Forse, anche profondamente mutata. Ma c’è, è lì ancora da qualche parte, in attesa di riemergere con una forza ben più grande di quella che può essere l’assalto di un “licker” o di un “runner”.
E questa emotività, che Joel aveva dimenticato ma che Ellie ha sviluppato, seppur in modo diverso, diventerà il vero collante tra i due.
The Last of Us; ovvero “gli ultimi tra di noi”. In questo titolo risiede tutta l’ambivalenza voluta dagli sviluppatori del gioco, a dimostrazione che i superstiti di un mondo apocalittico non sono solo quelli che non hanno subito la trasformazione, ma anche chi ha conservato, in un qualche modo, la propria umanità.
E quindi basta un giardino che spunta rigoglioso da dietro a un palazzo, o addirittura una giraffa che fa capolino all’improvviso, in una di quelle che ritengo tra le scene più iconiche del primo capitolo, a farci capire, proprio attraverso il candido stupore di Ellie, che una qualche forma di “mondo”, di “pianeta” e quindi di “esseri umani” esiste ancora, se permane la voglia di stupirsi per quanto la natura, pur nella devastazione, è in grado di regalare.
Un altro passaggio del primo capitolo che ha lasciato il segno e che vede protagonista Ellie è quando sulle montagne innevate si trova costretta ad uscire con lo scopo di trovare provviste per un Joel ferito gravemente. Qui abbiamo la natura, che conserva la sua insidiosa maestosità nell’inospitale contesto innevato dell’inverno, e la giovane Ellie, che munita di arco e frecce esplora le zone alla ricerca di qualcosa, probabilmente cibo.
Ad un certo punto compare un cervo, l’unica possibilità di dare sostentamento all’amico ferito. Parte così una caccia brutale e spietata, che ci regala una Ellie ancora più matura e consapevole, e quell’animale che alla fine viene ucciso, pur nella pietà che può suscitare in noi, rappresenta tutto il peso della responsabilità a cui una quattordicenne non dovrebbe essere messa di fronte, ma a cui viene costretta da tutto quello che la circonda.
The Last of Us e il concetto di umanità visto con gli occhi di Ellie
“La mia più grande paura è quella di rimanere sola.”
Questa la confessione di Ellie al giovane Sam, ragazzo di colore con cui ha per un breve periodo incrociato la strada.
La responsabilità, la consapevolezza, anche la violenza con cui è costretta a vivere; niente di questo può essere più forte del bisogno atavico di avere un legame forte e profondo con qualcuno. Perché alla fine, anche nei contesti più brutali, non si può perdere quell’umanità, quella voglia di condivisione che anche in un mondo alla deriva è ciò che rappresenta davvero “gli ultimi di noi”.
All’apice di tutto questo assistiamo verso la fine del primo capitolo, quando Joel, consapevole del fatto che Ellie non sarebbe sopravvissuta all’intervento per trovare un vaccino, irrompe nell’ospedale portando via la ragazza; non sarà tuttavia in grado di dire a lei la verità, una verità che l’avrebbe certamente sconvolta.
L’evoluzione del rapporto tra i due viene analizzato nel dettaglio in The Last of Us Part II, attraverso un sapiente mix di narrazione in tempo reale degli eventi e flashback del recente passato in cui si mostra la spensieratezza di quello che è, nei fatti, un rapporto padre-figlia unito al dovere di rimanere sempre all’erta perché ogni momento è quello buono per trovarsi in pericolo di vita.
Il vero spartiacque narrativo per i due protagonisti lo abbiamo quando Joel, incalzato da Ellie, la quale da tempo nutre sospetti su cosa sia realmente successo in quell’ospedale, si vede di fatto costretto a rivelare la verità alla ragazza, che subito si trova ad essere schiacciata dal senso di colpa.
Da lì in poi assistiamo ad un vero e proprio raffreddamento del legame tra i due, con Ellie che comincia a trovare una sua strada, saldando il legame con la giovane Dina.
Il percorso di “separazione” da Joel non è logicamente senza traumi, ma la ragazza non riesce in alcun modo a perdonare il comportamento dell’uomo, reo di non averle detto subito la verità.
Quella di The Last of Us Part II è una Ellie che in un certo qual modo completa quel percorso di maturazione personale, proprio attraverso dei passaggi ben precisi: l’allontanamento da Joel, il quasi contemporaneo avvicinamento a Dina, il fatto di conquistarsi, nonostante tutto, una sua indipendenza.
Maturazione che va incontro ad un vero stravolgimento quando la ragazza assiste alla brutale morte del suo amico, per mano di Abby.
Da quel momento inizia una vera e propria “caccia”, che si concluderà con quello che rappresenta probabilmente una delle più significative svolte emotive di Ellie: lo scontro con la stessa Abby.
Il messaggio più importante di Ellie
Quello è il momento in cui, secondo me, gameplay, caratterizzazione dei personaggi e trama si fondono in un unico, geniale elemento: Ellie, accecata dalla sete di vendetta, sta per portare a termine l’obiettivo di uccidere la sua rivale, salvo desistere non appena le balza davanti agli occhi la figura (per lei) rassicurante di Joel. In quel momento, in quel preciso momento la ragazza ritrova il vero senso di appartenere al genere umano, in tutto quello che rappresenta e che la rende diversa dalle bestie, sia umani che non, che popolano un mondo in decadente desolazione.
E’ questo, a mio avviso, il messaggio più importante che Ellie ci lascia: anche quando attorno sembra esserci il deserto emotivo, anche quando l’unica cosa che conta è sopravvivere, anche quando la violenza è regola e non eccezione, c’è sempre una possibilità di “restare umani”, di rimanere saldamente incollati a ciò che si pensava perso ma che, alla fine, fa sempre e comunque parte dell’Uomo: la sua umanità.