Benvenuti a questo nuovo episodio della rubrica settimanale di Player One: la rubrica dedicata alla biografia dei personaggi più iconici dei videogiochi. La settimana scorsa si è parlato di Andrew Ryan, l’oggettivista che ha fatto conoscere Ayn Rand ai videogiocatori di tutto il mondo. Ora è il tempo delle macchine.
Stavolta parleremo di Connor o androide RK800, se preferisci ,protagonista di Detroit: Become Human. Esiste realmente una distinzione tra uomo e macchina? Scopriamolo insieme in questo viaggio alla riscoperta di noi stessi.
Detroit: Become Human, uomini e no
“Ma ricordate, vi prego, la legge per cui viviamo, non siamo stati costruiti per comprendere una bugia…”
-Rudyard Kipling, “Il segreto delle macchine”
Sebbene in Detroit: Become Human i protagonisti siano tecnicamente 3 ovvero Connor, Kara e Markus, sarebbe disonesto dire che abbiano tutti lo stesso peso narrativo. Nonostante la meccanica centrale nei giochi di David Cage sia la possibilità di scelta né Markus né Kara possono decidere di restare automi, seguendo la loro programmazione fino in fondo.
La cosa è differente per Connor, come è intuibile dalla cinematica iniziale: l’androide possiede un incredibile controllo delle funzionalità motorie e ha come unico obiettivo in mente quello di risolvere il sequestro dell’ostaggio. A seconda della pazienza del giocatore e delle scelte di dialogo con il rapitore, la scena può svolgersi in diversi modi.
Il plot twist alla fine della sequenza iniziale, non è tanto la deviazione dal programma di Connor (che è piuttosto scontata) quanto il fatto che Connor abbia mentito. Probabilmente nessuno del team Quantic Dream si è accorto di quanto sia sottile e geniale questa conclusione, poiché le macchine programmate con la tecnologia odierna non sono ancora in grado di capire o formulare una bugia.
Tralasciando per un attimo l’ovvio parallelismo con il razzismo verso le persone di colore, che il gioco cerca di martellare ad ogni piè sospinto e che purtroppo perdura ancora nelle istituzioni e nella mente di alcuni, la rappresentazione di automi e androidi nel nostro immaginario collettivo oscilla tra due poli opposti, ovvero la macchina completa e l’umano privo di alcune caratteristiche.
Al bivio, la crisi di fede di Connor
Gli androidi di Detroit: Become Human sono decisamente umani con un led attaccato sulla fronte, che emblematicamente viene rimosso quando decidono di identificarsi come tali a tutti gli effetti. Questo per dire che il gioco in sé ha già una risposta in mente riguardo l’umanità degli androidi.
In generale si può affermare che le caratteristiche che ci rendono umani (nei media) siano il libero arbitrio, l’empatia, l’amore, la religione e occasionalmente il senso dell’umorismo. Per quanto riguarda Connor è presto detto. Il suo libero arbitrio è legato alla possibilità di restare un ibrido tra Blade Runner e Terminator, oppure attraversare quella soglia invisibile tra uomo e macchina e agire per sé stesso.
L’empatia e l’amore invece vengono sviluppati durante i capitoli successivi: sebbene il primo deviante venga automaticamente consegnato alla polizia, quelli successivi si possono lasciare liberi con l’approvazione di Hank, il nostro partner scontroso ma dal cuore d’oro.
Hank entra in gioco anche sull’amore: mentre Markus ottiene la sua partner romantica obbligatoria e Kara rappresenta l’amore materno, a Connor spetta anche lo spinoso compito di figlio surrogato per Hank. Degno di nota dunque, che lo sviluppo di questa sottotrama non sia necessario, ma aiuti ad ottenere il finale migliore.
Infine la cosa lascia piacevolmente stupiti è anche il rapporto con la religione. Connor entra in contatto diverse volte con la sigla rA9, che nel contesto del gioco rappresenta un codice ideato dai devianti per indicare una sorta di divinità, inserito forse da Kamski, il vero creatore e mente degli androidi. Ancora una volta, dal punto di vista della programmazione, per Connor dovrebbe essere letteralmente inconcepibile, ma per un essere umano la religione è un concetto piuttosto antico.
Naturalmente in questa revisione della trinità, la parte del messia è interpretata da Markus, quindi la vicinanza di Connor a Kamski e la scoperta della sua backdoor rappresentano metaforicamente Adamo e il frutto dell’eden.
La lezione del Postumanesimo sul libero arbitrio
Purtroppo o per fortuna una vera Intelligenza Artificiale non è ancora alla nostra portata, anche se ne riusciamo a intravedere le radici. Quello che manca a Detroit: Become Human per sviluppare al massimo il suo messaggio è l’assenza del libero arbitrio sia all’interno del gioco, che al suo esterno.
Non è apparentemente possibile uscire da questo paradosso: se Connor (personaggio) fosse effettivamente libero di scegliere, le sue scelte sarebbero indipendenti dal giocatore. Se al contrario Connor (giocatore) fosse effettivamente libero, saremmo in grado di uscire dai limiti della storia e dal gioco stesso, cosa che lascerebbe ben poco spazio alla narrazione.
Ma siamo veramente liberi? Siamo in grado di pensare, di amare, di credere a qualcosa di indimostrabile, ma come può aiutarci questo a sfuggire dalle nostre condizioni materiali o dal modo in cui siamo stato educati? Quello su cui Connor in particolare e il Postumanesimo in generale ci spingono a riflettere è la nostra posizione all’interno dell’ecosistema.
Attraverso storie vicine e lontane al tempo stesso (un “futuro anteriore”, se vogliamo) dobbiamo rimuovere l’uomo dal centro dell’universo e accettare di esserne solo una parte, così come lo è tutto ciò che possiamo creare con le nostre mani, androidi inclusi.