“Ogni viaggio ha una fine”, una dichiarazione netta e decisa che ha fatto capolino in fase di campagna marketing, che è stata ribadita dai membri di Santa Monica Studio durante lo sviluppo, e che arriva anche a sconvolgere il viaggio dei videogiocatori a un certo punto dell’avventura, anche i personaggi che stiamo impersonando ne sono consapevoli: il Ragnarok è la fine, di tutto, tanto nel nostro mondo quanto in quello mitologico che incornicia da oltre quindici anni le peripezie di uno spartano che, dopo aver trucidato il pantheon greco, si è ritirato a riposare le stanche membra nei suggestivi Nove Regni.
Scrivo la recensione di God of War Ragnarok con una certa emozione da fan della prima ora e da videogiocatore appassionato, i polpastrelli che battono sulle lettere della tastiera tremano, così come hanno tremato ininterrottamente dal primo avvio fino ai titoli di coda, perché l’ultima opera della software house californiana si può riassumere in una parola sola: emozione. Mi basterebbe anche questo per concludere il mio discorso e dirti: “Va’ a viverti il gioco, gustalo, goditelo, non perdere tempo qui”, ma la voglia di parlare di Ragnarok è tanta e incontenibile, e sento che a mente fredda lo sarà ancora di più.
Il God of War del 2018 è stato un cambio di rotta radicale per la serie e per la software house; un prodotto che molti guardavano con diffidenza: si passava da un ignorantissimo (nel migliore dei sensi) hack’n’slash a un ben più pomposo e strutturato Action GDR, dalla mitologia greca a quella norrena… troppi cambiamenti, il pubblico vuole la sua comfort zone, il gioco non avrà successo e possiamo dare la saga di Kratos per finita ormai. La storia però ci racconta altro e nel 2018 God of War strappa con una brutale forza da spartano il titolo di GOTY a Red Dead Redemption 2.
Quattro anni dopo la storia si ripete e Santa Monica Studio si rivela di nuovo in grado di stupire e sorprendere in maniera unica, ricordo come dopo aver visto il primo trailer di God of War Ragnarok dissi testualmente: “Ok, è God of War con ghiaccio”, la diffidenza iniziale si è diradata solo pad alla mano e mi sono effettivamente ritrovato davanti allo stesso titolo di quattro anni fa, ma migliorato sotto ogni singolo aspetto. E cos’hai quando migliori tutto di un gioco che si è già portato a casa il GOTY? Non amo quel termine, ma è difficile non parlare di capolavoro in questo caso.
Destinati a cambiare il destino
God of War del 2018 ci ha lasciati con un cliffhanger da manuale con una rivelazione che ci faceva rileggere in chiave completamente diversa gli eventi vissuti fino a quel momento e che dava un’istantanea voglia di sequel, in particolare perché la natura di Atreus diventava troppo “ingombrante” per essere ignorata o per non volerne sapere di più. God of War Ragnarok riprende a livello di lore la narrazione da dove l’avevamo lasciata, con una coppia di protagonisti cresciuta (Atreus in particolare), ma ancora alla ricerca di un equilibrio pacifico e con più domande che risposte al seguito.
Ben presto però, nelle attività quotidiane condotte da padre e figlio irrompe con prepotenza il passato, sotto forma di una furiosa Freya che ancora non ha perdonato i due per la morte di Baldur, a ricordarci che in questo capitolo più che mai, le azioni di Kratos (e figlio) hanno avuto delle conseguenze. Capiamo così che la pace tanto ricercata da Kratos è, purtroppo, ancora un’utopia lontana e difficile da raggiungere. La narrazione di God of War Ragnarok è densissima e ricca di elementi, e ben presto alla minaccia di Freya se ne aggiungeranno altre ben più grandi.
Ed è in questo momento, a poco più di dieci minuti dall’inizio, che God of War Ragnarok inizia a far intravedere la sua grandezza: nulla è lasciato al caso, si può raccontare un poema concreto, fatto di personaggi reali, ma allo stesso tempo ci saranno una miriade di metafore (e riferimenti a tutta la lore, perfino i capitoli su PSP) che aspettano il giocatore pronto a coglierle. Prima fra tutte: Kratos che accetta e lascia entrare nella sua vita, letteralmente e metaforicamente, la divinità.
Nel capitolo precedente della saga abbiamo visto un Fantasma di Sparta intento a rifuggire il passato, consapevole del fatto che in Grecia, tra divinità infide e crudeli (come tende anche a rimarcare nel corso di Ragnarok), non avrebbe mai avuto pace. Ora invece lo spartano è più che mai pronto ad accettare il proprio destino (una delle tematiche principali del titolo) nel bene e soprattutto nel male, cosa che invece Atreus non è ancora pronto a fare.
Alla narrazione che vede come imperante la costruzione del rapporto padre-figlio se ne sostituisce una ben più complessa che ha come centro focale la fatalità e lo scorrere degli eventi, ma che si dipana in più direzioni, tutte riuscitissime e ben esplorate. Se la sceneggiatura è però in grado di espandersi in maniera così curata e soddisfacente è tutto merito dei personaggi, veri protagonisti di eventi, è il caso di dirlo, apocalittici e che assumono una portata mai vista prima nella serie.
Tutti i personaggi di questo dramma corale, perché sì, Kratos non ruba la scena come accadeva in passato, ma sa mettersi da parte (in tutti i sensi) per far sì che i riflettori siano puntati di volta in volta sui comprimari, tutti pronti a vivere la fine del mondo in maniera diversa e unica. Lo spartano che ha iniziato la sua epopea di rabbia e vendetta nel lontano 2005 diventa in Ragnarok un personaggio completo e sfaccettato, portando a compimento un percorso iniziato già nel 2018 con lo scorso capitolo.
Il dio della guerra greco infatti subisce una maturazione graduale e ben calibrata che ci porterà a vederlo accettare i propri limiti ed errori, a essere in pena per le sorti di suo figlio, a rifiutare la violenza quando non necessaria e perfino a piangere e inginocchiarsi davanti a personaggi molto “meno divini” di lui, in un percorso di accettazione di ogni singola emozione dell’animo umano che non potrà non emozionare ogni giocatore, dai fan della prima ora che avranno vissuto appieno la crescita del personaggio fino ai nuovi arrivati che hanno conosciuto l’ex Fantasma di Sparta appena qualche anno fa e potranno apprezzare la difficoltosa parabola che vede un padre accompagnare un figlio nella delicata fase adolescenziale.
E non parliamo di un adolescente normale, dal momento che la principale spalla di Kratos è ovviamente suo figlio Atreus, in rotta di collisione col padre in un riuscito mix tra drammi puberali e riscoperta della propria identità divina e del proprio destino, a quanto pare, ineluttabile. Il tutto collide in un viaggio alla ricerca della propria individualità e libertà che, miracolosamente, riesce a non inciampare nei cliché dei generi di formazione e teen drama grazie a una direzione attenta a ogni minimo particolare e a pesare ogni singola parola e dialogo.
Perché i dialoghi, anche quelli di transizione tra un obiettivo e l’altro, tornano e non si limitano più alle sole interazioni tra il trio composto da Kratos, Atreus e Mimir (terzetto ora più sinergico e rodato che mai), ma vedono avvicendarsi una nutrita pletora di personaggi secondari, ognuno con la propria personalità e con esclamazioni sempre perfettamente calzanti alla bocca di turno. Ulteriore forza di God of War Ragnarok infatti sta nell’esaltare ogni tono, non sono quelli tragici ed epici, ma anche quelli più comici e triviali.
In particolare, il contrappunto comico è dato dal duo di nani Brok e Sindri, che sanno ritagliarsi una parte ancora più ampia nel grande dramma che è la fine del mondo. Ognuno dei due riesce a smorzare i toni in maniera unica e riuscita, con un Brok senza freni che torna con prepotenza a prendersi il suo ruolo di inarrestabile macchina sforna ingiurie, e Sindri, che fa delle sue nevrosi un motivo per riderci assieme e amarlo incondizionatamente. Un mosaico decisamente variopinto in cui tutto riesce a trovare la propria perfetta collocazione e che, per fortuna, non ha risentito troppo del cambio al timone della produzione.
Cory Barlog, che ormai da anni dirige la nave di Kratos e soci, ha infatti lasciato il posto a Eric Williams proprio in occasione di questo capitolo cruciale. Il cambio, è innegabile, si sente, poiché ai toni epici e austeri se ne alternano altri decisamente inediti per la narrazione a cui siamo abituati (ci sarà per esempio un personaggio che si atteggia a vero e proprio padrino mafioso), eppure, il tutto riesce a rientrare sempre in una dimensione che fa percepire la saga non come cambiata, ma cresciuta nella maniera più naturale possibile, proprio come hanno fatto i suoi personaggi (primo su tutti Kratos per ovvi motivi di “minutaggio”) e i videogiocatori che la seguono da quasi vent’anni.
L’Yggdrasil ha infinite ramificazioni, il gameplay anche…
Ancor più significativo del cambio di setting, il God of War del 2018 vide anche, come accennato in precedenza, un radicale cambio nel gameplay che passava da hack’n’slash ad Action GDR. Un cambio che, se confrontato con quello di Ragnarok, fu davvero timido considerando che anche in questo caso ogni singolo aspetto del combattimento e dell’esplorazione viene arricchito e approfondito.
Ragnarok può vantare un ritmo invidiabile considerando come sono state bilanciate alla perfezione le fasi di esplorazione, condite ovviamente dagli immancabili enigmi ambientali, e gli scontri, che risultano sempre interessanti e ben strutturati sia quando si affrontano gruppi di nemici minori che imponenti boss. Ogni combattimento si rivela memorabile ed equilibrato (a parte un paio di scivoloni in cui ci sono miniboss rotti che non rispondono alle logiche di gioco), in grado di mettere alla prova le abilità del giocatore e le sue capacità di adattarsi ai nemici per cercare la migliore strategia.
Ogni arma avrà con sé il proprio set di abilità e attacchi unici, da sbloccare tramite punti esperienza, che cambieranno radicalmente il gameplay e che potremo scegliere liberamente e senza remore (a meno che non dobbiamo affrontare nemici resistenti a un determinato elemento). La maggior parte degli attacchi poi può ulteriormente evolversi dopo un determinato numero di utilizzi.
Proprio in questa caratteristica del combat system però può nascondersi quello che qualcuno potrebbe etichettare come un difetto: la necessità di utilizzare uno specifico attacco per un determinato numero di volte potrebbe portare alcuni giocatori fanatici del completismo a spammare una determinata azione così da completare l’albero delle abilità in maniera più ordinata ed efficace possibile, perdendosi così la profondità di un gameplay che propone un invidiabile macrocosmo di attacchi di ogni genere.
Kratos potrà contare su attacchi a distanza grazie al lancio del Leviatano, brutali combo corpo a corpo che provocano Gelo, fare crowd control grazie all’ampio raggio delle Lame dell’Esilio, che opportunamente caricate infliggeranno lo status Fuoco e tanto latro, che evito di citare per non rovinarti la sorpresa. Il tutto viene poi arricchito ovviamente da parate e parry che cambieranno il modo di approcciare la lotta in base alla tipologia di scudo equipaggiato, che potrà essere un pesante scudo a torre che sfavorirà la mobilità rendendoci però più resistenti o uno scudo leggero che farà diventare Kratos una scheggia impazzita in grado di respingere ogni minaccia col giusto tempismo.
Sto solo grattando la superficie, e lo sto facendo volutamente dal momento che la profondità del sistema di combattimento è impossibile da racchiudere in un testo senza che venga provata pad alla mano, e anche perché si è rivelata sorprendente e curata come mai prima d’ora nel medium videoludico. Ogni singola mossa a disposizione dei personaggi compensa pregi e difetti di ogni combattente presente in campo creando così un flow nel combattimento privo di punti ciechi e capace di venire incontro alle preferenze di ogni tipo di giocatore.
Se ti piace sperimentare e provare combo ardite che potrebbero anche farti correre il rischio di rimanere scoperto, allora God of War Ragnarok è il videogioco che fa per te, se invece ti piace affidarti ad attacchi efficaci e che dopo qualche ora di gioco potresti mandare a segno a occhi chiusi, beh… anche in quel caso Ragnarok fa al caso tuo. La proverbiale “libertà d’azione” diventa qui un mantra che gli sviluppatori non hanno mai abbandonato e si sono assicurati che la loro creazione possa essere adatta a tutti i tipi di videogiocatore, lo confermano anche le opzioni di accessibilità di cui discuteremo dopo.
Gli strumenti di morte non sono però l’unica componente significativa del combattimento, vengono anzi a dare manforte armature di ogni tipo, che costituiranno un’offerta ancora più ampia e variegata che in passato permettendo di creare build molto più variegate del precedente capitolo. A completare il tutto poi ci pensano amuleti e castoni che doneranno rispettivamente abilità passive ai personaggi e attacchi speciali unici alle armi.
Tantissima carne al fuoco, forse troppa, ma solo dal punto di vista della gestione delle informazioni e delle statistiche, soprattutto nei menù. Parametri, statistiche, effetti delle abilità passive: i menù di equipaggiamento verranno letteralmente invasi di muri di testo che renderanno talvolta difficili da decifrare le caratteristiche attive da quelle che si vogliono equipaggiare con nuove attrezzature; un difetto che non si può ignorare, soprattutto perché viene ereditato dal capitolo precedente e, anche in questo caso, espanso.
Comparto tecnico divino, di nuovo
Il comparto tecnico è probabilmente l’aspetto del gioco più delicato da trattare in quanto è sicuramente pregevole e ben realizzato sotto tutti i punti di vista, ma lo era già quattro anni fa col capitolo precedente e non ha fatto nulla per migliorare. Stando alle dichiarazioni degli sviluppatori, God of War Ragnarok doveva a tutti i costi essere disponibile su PlayStation 4 perché era giusto che i possessori della console old-gen potessero portare a compimento quest’epopea norrena sulle loro console, la versione next-gen è solo la proverbiale “ciliegina sulla torta”.
Il punto è che già il precedente God of War metteva un passo in una next-gen all’epoca ancora inesistente, è quindi strano il fatto che non ci siano differenze di sorta nel confronto dei due per una grafica che comunque rimane sbalorditiva. Avendo rigiocato da poco il God of War del 2018 per prepararmi a Ragnarok mi rendo conto però di una cosa: gli sviluppatori, consapevoli del focus sulle emozioni che il titolo avrebbe avuto, hanno puntato molto sulle espressioni facciali, con qualche piccolo scivolone sul volto di Atreus purtroppo, ma con un Kratos dal volto più espressivo che mai in ogni situazione.
Un plauso alla direzione artistica, in Ragnarok esploreremo tutti e nove i Regni a differenza di quanto accadeva in passato, e ognuno è stato caratterizzato alla perfezione e ogni singola inquadratura offre scenari mozzafiato, criminale in questo senso la scelta di non includere il Photo Mode già al lancio (arriverà sicuramente con una patch futura, come accaduto in passato); scenari certo fuori dal comune a livello di resa grafica, ma che purtroppo rimangono ingabbiati nella logica del prodotto cross-gen quando parliamo di resa degli ambienti innevati o di profondità di campo.
Discorso a parte per la colonna sonora e gli effetti audio, impeccabili entrambi. Le tracce proposte rimarcano ovviamente i toni epici della serie e rimbombano nella testa del giocatore (imperativo l’uso delle cuffie, specialmente durante le boss fight) e sono memorabili, al pari di quelle di God of War III e del precedente capitolo, riescono tuttavia anche a cedere il passo a sonorità più leggere nel momento in cui ci sono scene conviviali e di quotidianità. A proposito di effetti audio c’è da fare un appunto sull’uso del DualSense su PlayStation 5, che sfrutta gli altoparlanti in maniera brillante in una sezione in particolare, ma che per il resto si limita a utilizzare al minimo sindacale i trigger adattivi e non prende nemmeno in considerazione il feedback aptico.
In definitiva, God of War Ragnarok è, a parer mio, un fan della prima ora che ha fatto di tutto per mantenere le emozioni fuori da questa recensione ragionando con lucidità, una degna conclusione di una serie che in oltre quindici anni ha collezionato molti più successi che passi falsi (sto guardando te, Ascension) ed è da considerare uno dei titoli migliori non solo del 2022 (chissà se strapperà il GOTY a Elden Ring), ma dell’intero scenario videoludico attuale. Il mio cuore darebbe per la prima volta un 10 a un titolo, ma purtroppo i difetti ci sono e vanno attribuiti in particolare a un concetto di produzioni cross-gen da cui ancora non riusciamo, e non possiamo, liberarci, e a una gestione che in pochi punti crolla sotto il peso della mole mastodontica di contenuti proposti.