Da grande appassionato di letteratura, Ulisse di James Joyce è da anni il mio sogno proibito, verso il quale devo portare ancora pazienza per circa altri vent’anni. A prescindere da chi me ne parlasse, l’etichetta affibbiata al romanzo era sempre la stessa: “Non leggerlo prima di aver compiuto cinquant’anni”, nella mia mente, quella lettura è diventata una di quelle tappe obbligatorie nella vita, una di quelle cose che a un certo punto si devono fare e che possono segnare un cambiamento.
Mentre attendo pazientemente il momento in cui, spente le cinquanta candeline, potrò aprire la prima pagina di quell’epopea letteraria, mi sono imbattuto in un videogioco che mi ha suscitato la stessa riflessione sul “fare le cose al momento giusto”, si tratta ovviamente di The Longest Road on Earth, il particolare, e unico, oggetto di questa recensione; un videogioco che vuole spogliarsi del suo essere videogioco per far vivere al giocatore (o meglio, allo spettatore) un’esperienza intima e toccante, scoprilo nel dettaglio nella nostra recensione!
“Por el sendero del dolor, y la alegria”
The Longest Road on Earth ci dà il benvenuto senza troppi preamboli e, soprattutto, senza una singola parola, una caratteristica che contraddistinguerà l’intera durata dell’esperienza, che si attesta comunque al di sotto delle due ore, una scelta che va ad avvalorare ulteriormente il taglio filmico che si è deciso di dare al titolo.
Attenzione però, taglio “filmico” e non “cinematografico” dal momento che The Longest Road on Earth non si lascia mai andare all’azione, mantiene un ritmo lento e compassato per tutta la sua durata e, soprattutto, riesce a non esprimere mai alcuna emozione, riuscendo però incredibilmente a suscitarne nel giocatore, che si ritrova a osservare dall’esterno quattro diverse storie di vita, che vogliono esprimere lo scorrere del tempo tramite la quotidianità e non le azioni spettacolari tipiche del medium videoludico.
Me ne sto rendendo conto solo ora, mentre scrivo, ma è in realtà particolarmente difficile parlare della trama del gioco, dal momento che gli sviluppatori hanno deciso di non raccontare, se non per immagini, gli eventi che caratterizzano lo scorrere del gioco. Questa particolare scelta porta ognuno di noi a ritrovarci in alcune situazioni, o a farci sentire particolarmente lontani da esse, come se fossimo alla finestra e guardando degli sconosciuti ci divertissimo a cucirgli addosso delle storie di vita: tutto è lasciato alla libera interpretazione di chi decide di vivere questa esperienza.
Inoltre, gli sviluppatori hanno anche deciso di utilizzare come protagonisti degli animali antropomorfi, un dettaglio che fa sentire lo spettatore ancora più lontano dai personaggi mostrati a schermo, ma incredibilmente vicino alle loro storie semplici e ai frammenti di quotidianità che stanno vivendo. Ripeto, è davvero difficile da esprimere a parole ciò che The Longest Road on Earth suscita, eppure sento di aver incontrato il titolo al momento giusto. Piacerà sicuramente a una nicchia abbastanza ristretta, ma se tu che stai leggendo ti stai affacciando alla soglia dei trent’anni, questa è l’esperienza che fa per te, un po’ come l’ottimo A Night in the Woods.
Gameplay, non ce n’è sempre bisogno…
Come già anticipato, The Longest Road on Earth rinuncia completamente alla sua componente videoludica, proponendo un walking simulator più minimale che mai: non dovremo fare altro, infatti, che procedere lungo i fondali in 2D con una visuale a scorrimento laterale e di tanto in tanto interagire con alcuni elementi sullo sfondo per visualizzare delle immagini statiche che permetteranno alla narrazione di andare avanti.
Per quanto minimali e ridotte all’osso, c’è da dire che le interazioni si rivelano comunque degne di nota, dal momento che permettono ai giocatori di rendersi veri e propri registi della narrazione. Il semplice spostarsi da un punto all’altro degli scenari infatti farà avanzare la scena nella parte dello schermo non visualizzata, come se il tutto fosse un lungo piano sequenza che va a coprire la durata di una intera esistenza, la dimostrazione che anche un gameplay minimale può rivelarsi in grado di dare vita a situazioni uniche e attuabili solamente tramite il medium videoludico.
Comparto tecnico: less is more!
Nel più assoluto minimalismo rientra anche il comparto tecnico: gli sviluppatori hanno infatti deciso di puntare sull’uso del bianco e nero e sulla più classica della pixel art per dar vita a una narrazione sospesa nel tempo in grado che sia in grado, potenzialmente, di parlare a tutti coloro che vorranno approcciarsi al titolo.
Indiscusso fiore all’occhiello di The Longest Road on Earth è la sua colonna sonora, che ho recuperato subito dopo aver concluso la mia run. Le scene del titolo vengono infatti accompagnate da una ventina circa di brani originali realizzati appositamente per il gioco, la cura da parte del team di sviluppo per questo aspetto della produzione è palpabile, ogni brano infatti riesce ad accompagnare e commentare alla perfezione ogni singola situazione; dal punto di vista stilistico poi sono certo che queste tracce così intime e delicate faranno la gioia dei fan dei Low Roar: sentire per credere!
In definitiva, The Longest Road on Earth non è assolutamente un titolo per tutti: si tratta di un’opera delicata e minimale, che saprà parlare soprattutto a chi si trova in una fase di crescita e cambiamento, abbandonando ogni minima ambizione di gameplay per concentrarsi maggiormente sulla narrazione (o meglio, sull’interpretazione della stessa) e sull’aspetto artistico, funzionale e funzionante per quanto minimale.