Quelli che conosciamo come giochi di ruolo, o GdR, appartengono in realtà al ceppo più moderno del genere, che ne ha soppiantato un’antica connotazione fatta di dadi, armi, cavalieri, draghi e tanta, tanta fortuna. Chi ha la fortuna di apprezzare questo genere, amerà Rimelands: Hammer Of Thor, ma voglio essere onesto fin da subito: il gioco è tante cose, ma di certo non un titolo per tutti.
Questo titolo è stato lodato dalle più svariate recensioni per la sua profondità strategica, nella sua incarnazione originaria, quella dei titoli per cellulari. Di certo, il gioco ha riscosso molti consensi giocando “in casa”, ma nel nuovo contesto in cui si sottopone al nostro giudizio, quello delle console, deve dimostrarsi capace di una transizione adatta a rispondere alle esigenze dell’utenza di Nintendo Switch, abituata a titoli di altissimo livello.
“Io sono Pdor, figlio di Kmer!”
La trama del gioco prevede come pretesto alla sua base una sequela di citazioni alla mitologia norrena (da cui le location del gioco prendono i loro nomi), in seguito a un cosiddetto götterdämmerung. Per i meno informati sui mille neologismi tedeschi (“Hanno una parola per tutto!”, citando i Simpson), quello del götterdämmerung (“crepuscolo degli dei”) è un espediente narrativo che fa da incipit per molti racconti fantasy, e prevede una “morte della magia” avvenuta molti eoni prima che la narrazione abbia inizio. Ma nonostante la neve e l’ambientazione di stampo steampunk, non abbiamo a che fare con Final Fantasy VI, purtroppo.
La protagonista, dal nome canonico (cioè preimpostato, ma modificabile a inizio gioco) di Rose Cristo, ci narra con un vero e proprio info-dump ciò che dobbiamo sapere sulla lore del gioco. L’ultimo volo a bordo di un’aeronave deve esserle andato male, ma mai quanto ai suoi genitori, che stranamente Rose fatica a ricordare tanto bene quanto il velivolo stesso. Ad ogni modo, la sua nonna l’ha salvata dagli aggressori, e questo ci porta ad oggi: sono passati vent’anni, e vedere svettare sull’ingresso di una grotta (chiamata Vault, come gli iconici “rifugi” di Fallout) lo stesso marchio di chi l’ha resa orfana, l’ha spinta ad addentrarsi nel dungeon.
Dark Souls and Dragons
La schermata del titolo presenta un’utile voce “Help”, che illustra il complesso e paradossale connubio tra fortuna e strategia sul quale il gioco decide di costruire le proprie fondamenta. Una descrizione laconica per il titolo potrebbe essere “Dark Souls, se ogni attacco venisse gestito da un lancio di dadi”. Vorrei tanto che questa definizione fosse goliardica, ma purtroppo non è questo il caso: è la casualità applicata alla difficoltà di Dark Souls. Non la migliore delle combinazioni.
Ripartendo da dove la trama ci ha lasciati, il primo dungeon presenta un rudimentale tutorial distribuito tramite molteplici messaggi che fanno capolino a sinistra sullo schermo. Questi sono disposti in ordine inverso, mettendo il più recente in cima; dal momento che già i primissimi di loro vengono elargiti in gruppo, questa scelta di design si rivela infelice. Purtroppo, i potenziali acquirenti potrebbero trovarsi di fronte a un altro muro, quello linguistico: il gioco è interamente in inglese, e mentre noi non abbiamo avuto problemi, questo va a restringere ulteriormente la nicchia già ridotta a cui il gioco è rivolto: le meccaniche non sono esattamente tra le più semplici, vengono spiegate introducendo rapidamente più nozioni alla volta e tutto viene esposto in una lingua che richiede un minimo di dimestichezza per rendere il gioco quantomeno godibile.
I movimenti del gioco vengono gestiti con un misto tra una visuale isometrica e una mappa a griglie, e mentre il tutorial allude all’uso della leva analogica: non c’è nulla che possa rendere meno legnosi i movimenti. Spostarsi verso l’alto porta il nostro avatar nella direzione diagonale “in alto a destra”, e le altre tre possibili direzioni si regolano di conseguenza. Il risultato produce un effetto simile ai livelli di Sheila il canguro in Spyro 2: Season Of Flame per Game Boy Advance o, per essere meno lusinghieri, ai movimenti di Q*Bert.
L’interfaccia di gioco, in basso, ci mostra tutto quello che ci serve sapere del nostro personaggio in battaglia: i suoi punti vita appaiono nella barra rossa a sinistra, i suoi punti magia (“mana”) nella barra blu sulla destra, mentre al centro viene mostrato il mini-menù delle abilità, di cui parleremo più tardi.
Interagire con gli elementi sulla mappa richiede di andarci addosso, siano essi scrigni, personaggi non giocanti, o libri come quello che cita il götterdämmerung menzionato nella precedente sezione. Questo include anche i nemici, che si possono attaccare a distanza sia lunga che ravvicinata: la prima opzione sarà disponibile non appena si trova la prima pistola, mentre la seconda viene introdotta dopo il primo dialogo tra la protagonista e i banditi visti a inizio gioco.
Muovendosi sulla casella dove si trova il nemico, si può dare il via a un attacco corpo a corpo. Nelle fasi di attacco, sia da parte nostra che da parte dei nostri avversari, entrano in gioco i dadi, che sulle loro facce possono recare teschi, scudi o croci. I valori di attacco per ogni arma sono sempre aleatori, in sospeso tra un minimo e un massimo; sta ai dadi, e ai teschi che potremo trovare dopo un lancio, stabilire quanti saranno i danni inflitti.
Ogni nemico, dalla sua, ha un valore di attacco e uno di difesa: quest’ultima può essere “rotta” in base ai valori di attacco e ai teschi che riusciamo ad accumulare. Un lancio andato male può venire ripetuto (tenendo buoni i dadi sui quali abbiamo ottenuto almeno un teschio), ma per farlo viene usato un punto della barra azzurra. Gli scudi servono solo in difesa, mentre le croci equivalgono a facce “vuote”. Questo porta a combattimenti dove, spesso e volentieri, ci ritroviamo a sperare “che l’RNG ce la mandi buona”.
I lanci dei dadi vengono chiamati in causa anche quando sono i nemici ad attaccarci, e possono, in via del tutto teorica, andare male anche a loro. Ovviamente, trattandosi di avversari gestiti dal computer, questo avviene raramente; molto più comuni, piuttosto, sono i nemici dal numero di dadi maggiore al nostro, capaci pertanto di infliggere gravosi danni. La curva di difficoltà, già di suo dedicata agli esperti di questo genere, inizia con un tutorial dall’approccio “nuota o affonda” e impenna praticamente subito.
Sta al giocatore, quanto prima possibile, equipaggiarsi con le migliori armi in circolazione, sperando sempre che gli scrigni contengano spade dall’alto numero di dadi, quantomeno per avere più probabilità di ottenere dei teschi (o degli scudi, quando siamo noi a venire attaccati). Il gioco introduce quasi subito le pistole per poter includere nel (parecchio sbrigativo) tutorial il concetto di combattimenti a lungo raggio, ma purtroppo il primo avversario capace di attaccare da lontano ci affronta altrettanto presto: è qui, in fase di recensione, che si è fatta viva la prima di tante, tante, tante schermate di Game Over.
I combattimenti a lunga distanza si basano sulle stesse meccaniche di quelli corpo a corpo, ma per attaccare, anziché muoversi in direzione del nemico, basta premere un pulsante, dopo aver scelto il bersaglio con i tasti dorsali nel caso in cui i nemici siano più di uno alla volta (cosa che, allerta spoiler, accade spesso). Una volta abbattuto il boss che conclude il tutorial, viene mostrato l’elemento “moderno” su cui Rimelands: Hammer of Thor fa leva per distinguersi dalla (poca) concorrenza che il gioco ha nel suo genere.
Stiamo parlando del crafting, con cui potremo usare gli elementi raccolti in giro per il gioco per forgiare nuove armi, armature, accessori o, nel caso dello strumento necessario ad uscire dal dungeon, anche semplici oggetti di base che non hanno alcun utilizzo bellico. Una volta usciti indenni dal primo dungeon, la mappa ci propone di tornare al “villaggio” (due case) di Asgard, dove potremo tornare a leccarci le ferite quando lo riterremo opportuno.
Oltre alla nostra nonna (adottiva?), ad Asgard troveremo anche il venditore, presso il quale avremo modo sia di rifornirci delle vitali pozioni curative che, soprattutto, smantellare gli oggetti per ricavarne elementi con cui forgiarne altri. Quella del crafting è la carta (o il dado?) vincente con cui il gioco crea la sua identità: per ottenere i bracciali auto-curativi che mi hanno permesso di sopravvivere un altro po’ nel gioco, ho sacrificato praticamente ogni arma inutilizzata trovata fino a quel punto dell’avventura.
Accumulando esperienza e salendo di livello, si possono ottenere dei bonus diversi divisi in tre diversi alberi delle abilità, inerenti rispettivamente ad attacchi ravvicinati, attacchi a distanza e doti magiche. In base alle abilità ottenute col tempo, ogni albero può concedere una nuova casella o, nel caso dei primi due alberi più incentrati sugli scontri, un numero maggiore di dadi per il tipo di attacco selezionato. Nel caso delle caselle degli alberi, ognuna corrisponde a un’abilità impostabile nei cinque slot al centro dell’interfaccia descritta all’inizio di questa sezione, sebbene l’utilizzo di queste dipenda da una barra che si riempie via via che si gioca.
La carne al fuoco, a livello strategico, di certo a questo titolo non manca, ma siamo pur sempre al cospetto di un gioco a base di dadi come Dungeons & Dragons: un giocatore che pigia tasti a caso molto fortunato con i dadi e un esperto tormentato dalla malasorte potrebbero ritrovarsi, paradossalmente, sullo stesso piano. Molti tentativi, nello screenshot qui sopra riportato, si sono conclusi con una sonora sconfitta, ma raramente i danni inflitti sono stati gli stessi tra un tentativo e l’altro.
A volte, la fortuna di ritrovarsi al negozio di Asgard con tanto denaro può tradursi in un numero di pozioni curative sufficienti a sopravvivere agli scontri più duri, ma non sempre si può contare su questo: è l’eccessiva enfasi sulla casualità il vero tallone d’Achille che impedisce a questo titolo di accedere al Valhalla videoludico. Se però sei un giocatore più navigato e il genere ti piace, potresti avere di che divertirti. Un solo avvertimento: i nemici non rinascono, quindi non contare sul loro respawn per farti un po’ di esperienza facile.
Gli ingranaggi del meccanismo
Passiamo ora al lato tecnico del gioco, partendo dalla grafica. Si tratta di un motore grafico a cavallo tra la tarda PlayStation e gli albori di PlayStation 2, ma credo che si tratti di una scelta stilistica deliberata: i caricamenti sono pressoché fulminei e, grazie alla visuale isometrica dall’alto che è stata adottata, il gioco non sfigura. Lo stile si traduce bene anche in modalità portatile, dove la natura “mobile” del titolo (salvataggi proibiti durante le battaglie permettendo) risulta ancora più evidente. A concludere il tutto, lo stile da dipinto tipico del pittore settecentesco Caspar David Friedrich (ispirazione dell’artwork di The Legend Of Zelda: Breath Of The Wild) per i fermo immagine delle cutscene si rivela una scelta eccellente. Ben poco da eccepire.
Altro discorso, però, quello della colonna sonora. Minimalista al punto di diventare anonima, la musica che contraddistingue questo gioco non ha molto da dire, né tantomeno il punto di vista degli effetti sonori: l’audio, al di fuori dei dungeon, suggerisce che stiamo camminando sulla neve anche quando stiamo in realtà percorrendo dei ponti in pietra. La varietà, almeno nella parte occidentale della mappa, tende a mancare e di parecchio. A salvare la baracca, a malapena, c’è un doppiaggio di buona fattura nelle scene, ma non nei dialoghi in-game.
La longevità segna l’ultima tappa nel nostro viaggio in questo mondo steampunk. In teoria, quest’avventura potrebbe tenerci impegnati molto a lungo; in pratica, però, lo fa per i motivi sbagliati: la longevità viene esclusivamente dalla difficoltà di quello che ho già definito come un Dark Souls giocato con i dadi: qualunque titolo completabile in un’ora può richiederne trenta se presenta una difficoltà elevata. Questo stratagemma, se di stratagemma voluto si può parlare, funzionava ai tempi dei primi Mega Man su NES: oggi questo approccio si rivela solo controproducente.