Ultimamente i roguelike hanno avuto un’esplosione davvero incredibile, che ha portato alla grande diffusione del genere anche nel mercato mainstream. Negli ultimi anni abbiamo visto molti titoli degni di nota presentarsi come roguelike o, in generale, prendere parecchie meccaniche tipiche del genere. Oltre ai famosi Hades, Dead Cells, Spelunky 2, Enter the Gungeon e The Binding of Isaac, abbiamo visto anche produzioni dal budget più alto, come Returnal, che addirittura è stato uno dei primi giochi della generazione attuale.
Parliamo quindi di un genere che non può più essere definito di nicchia e che ormai si è diffuso in modo non trascurabile. Proprio questa diffusione, però, ha portato a una sorta di perdita del significato originale di “roguelike”, utilizzato spesso a sproposito per riferirsi a titoli che, in realtà, sono roguelite. Anzi, per essere precisi, tutti i videogiochi che ho nominato nel primo paragrafo sono roguelite.
Il termine roguelike, infatti, inizialmente indicava dei giochi con caratteristiche specifiche e, per certi versi, molto rigorose. Con la progressiva diffusione del genere, però, molti sviluppatori hanno iniziato a sperimentare nuove meccaniche, diluendo la rigida struttura dei giochi “alla Rogue” in produzioni molto diverse, ibridate con vari generi e con meccaniche di ogni tipo.
Questo ha portato i puristi a sottolineare la divisione tra i roguelike più tradizionali e quei titoli che invece, pur ispirandosi alla struttura di Rogue, se ne allontanano in modo fin troppo evidente. Dare una definizione univoca che metta tutti d’accordo diventa quindi molto difficile, se non impossibile. Ci sono però alcuni punti chiave che definiscono in modo deciso i roguelike, differenziandoli in maniera netta dal sottogenere lite.
Quindi, arrivando al succo del discorso, qual è la differenza tra roguelike e roguelite e, soprattutto, da dove arriva la necessità di dividere il genere in due?
Cos’è un roguelike tradizionale?
Come accennato prima, ci sono alcune caratteristiche chiave che definiscono un roguelike tradizionale, staccandolo in modo netto dalle versioni più recenti e diffuse del genere. Queste meccaniche sono fondamentali per un motivo ben preciso: cambiano radicalmente le abilità richieste al giocatore e ciò su cui si fonda l’esperienza. Vediamole insieme:
La morte è permanente e non c’è modo di caricare un salvataggio o un checkpoint
I roguelike tradizionali si sviluppano nel corso di una partita e, alla morte del giocatore, tutto riparte da zero. Questa meccanica è importante per creare tensione e rendere ogni decisione importante e definitiva. Il pensiero di poter buttare un’intera partita, infatti, rende ogni scelta tattica rilevante, dato che impone al giocatore di riflettere bene sulle opzioni a sua disposizione e sui rischi che ogni scelta comporta.
Affrontare un nemico particolarmente potente con poche pozioni, per esempio, diventa una scelta con un grande peso, se non c’è un checkpoint da cui ripartire. Equipaggiare un oggetto ignoto che potrebbe essere maledetto non è più una decisione da prendere a cuor leggero, dato che potrebbe costarci la vita.
In pratica, sapere che ogni errore potrebbe portare alla morte, o comunque avere delle conseguenze sull’intera run, spinge a riflettere con più attenzione. Chiaramente, la metaprogressione (ovvero la possibilità di portare alcuni progressi tra le varie partite, rendendo l’avatar progressivamente più potente) è una meccanica che, almeno in parte, contrasta con il principio della morte permanente, dato che addolcisce l’amarezza della morte, dando al giocatore una sensazione di progresso.
Alcuni roguelike tradizionali, però, hanno comunque una forma di progressione, pur restando vicini alla struttura tradizionale del genere. In questi casi, per non scivolare nel sottogenere dei roguelite, è importante che le abilità del personaggio non sostituiscano quelle del giocatore; ma si limitino a dei piccoli aiuti o a piccoli cambiamenti nelle partite successive, come classi aggiuntive, oggetti extra e poco altro.
Detto in altri termini, la necessità di dover farmare – per aumentare le statistiche del personaggio o per sbloccare armi potenti prima di poter effettivamente avere qualche possibilità di concludere il gioco – è una scelta di game design che si allontana molto dalla filosofia dei roguelike tradizionali, dove è il giocatore a dover diventare più bravo. Al contrario, una progressione come quella di Shiren the Wanderer, basata su pochi elementi che non potenziano in modo eccessivo l’avatar del giocatore, è molto più accettata dai puristi del genere.
Tempo di gioco basato sui turni e spazio diviso a griglia
Quella che probabilmente era una scelta data dalle limitazioni tecniche dell’epoca si è poi trasformata in una meccanica che va a braccetto con la morte permanente. Il tempo di gioco dei roguelike puri è infatti a turni e, a differenza di quanto si possa pensare, questa non è una caratteristica da poco.
Giocare a un titolo a turni, infatti, vuol dire privilegiare le scelte tattiche, l’analisi delle opzioni e la riflessione, piuttosto che i riflessi e l’adrenalina data dai combattimenti più rapidi. Se poi consideriamo che ogni decisione è permanente e ogni morte è definitiva, allora tutto questo diventa ancora più importante.
Il motivo per cui il tempo a turni è così importante per staccare i roguelike dai roguelite, quindi, sta nel grande cambio di gameplay che questo comporta. Portare il classico “tempo reale” modifica radicalmente le meccaniche di gioco e ciò che è richiesto al giocatore. Nei classici del genere bisogna osservare, comprendere e sperimentare, spesso ragionando su diverse opzioni, più o meno creative. Ecco perché il prossimo punto è così importante.
Generazione procedurale di ambienti e oggetti
Anche stavolta siamo davanti a una meccanica dalla funzione sottovalutata. Gli elementi randomici, infatti, non sono importanti soltanto per garantire la rigiocabilità del titolo ma anche perché forzano il giocatore a ragionare in modo contingente, sulle situazioni che si ritrova davanti di volta in volta.
Gli elementi generati proceduralmente variano da gioco a gioco ma, di solito, troviamo dei dungeon sempre diversi a ogni partita e, spesso, anche degli oggetti dagli effetti e dalle funzioni differenti. Ad esempio, in una partita potremmo trovare una pozione rossa che ha effetti curativi mentre, in quella successiva, la stessa pozione potrebbe essere dannosa. Allo stesso modo, troviamo spesso equipaggiamento generato in modo casuale, con effetti di stato – o persino maledizioni – sempre diverse tra loro.
Non si tratta, quindi, di trovare piccoli dettagli generati casualmente (come nei dungeon di Infinity Blade), ma di vedere ambienti ed elementi di gioco diversi di partita in partita, in modo da costringere il giocatore ad adattarsi alle varie situazioni.
Questi tre elementi si combinano tra loro per formare i giochi visti come roguelike tradizionali. In qualche misura sono infatti tutti necessari per creare la classica formula di gioco tanto amata dagli appassionati: titoli basati sulle singole partite, dove le decisioni tattiche sono al centro del gameplay e al giocatore è richiesta una grande comprensione delle meccaniche.
Spesso, peraltro, le meccaniche di gioco sono molto complesse e ci sono parecchi modi in cui oggetti, equipaggiamento e dungeon possono interagire tra loro, in modi spesso sorprendenti. Basti pensare ai classici del genere, come Nethack, Brogue, Cogmind o ADOM, dove al giocatore sono offerte tantissime possibilità per risolvere le varie situazioni. Anche titoli meno complessi, come Pixel Dungeon, permettono una buona interattività tra gli oggetti e l’ambiente. Per esempio, è possibile lanciare una pozione infiammabile sull’erba, in modo da incendiare la stanza, oppure è possibile sfruttare gli angoli per cogliere i mostri di sorpresa e infliggere danni maggiori.
Troviamo però roguelike tradizionali meno complessi, come Jupiter Hell, dove le meccaniche di gioco si concentrano soprattutto sull’uso intelligente dei ripari e sulla gestione delle armi trovate a terra.
Il problema più grande di questo filone di giochi risiede nella loro grandissima mancanza di accessibilità, spesso affiancata da tutorial poveri o addirittura inesistenti. Questo rende frustrante approcciarsi ai roguelike tradizionali, anche solo per capire il feeling generale di titoli simili. Se vuoi provare qualcosa di più accessibile, senza buttarti a capofitto su giochi come Nethack, puoi scaricare Pixel Dungeon – praticamente una versione accessibile di Brogue – o potresti acquistare Shiren the Wanderer e Jupiter Hell.
E i roguelite cosa sono?
Come avrai già intuito leggendo fin qui, i roguelite sono titoli che, pur condividendo la struttura dei roguelike, si distanziano dalla formula base del genere o, più in generale, la ibridano con altri generi videoludici. Di solito sono quindi dei giochi che propongono il classico loop di morti e rinascite, aggiungendo però diverse meccaniche che rendono la formula più accessibile e varia.
Sono quindi roguelite quei titoli dove la metaprogressione è molto rilevante per progredire nelle singole partite, addolcendo quindi le conseguenze della morte permanente e rendendo la progressione dell’avatar un elemento centrale di gameplay.
Si aggiungono poi tutti quei giochi dove il sistema di combattimento viene ibridato con altri generi e l’azione è in tempo reale, come Enter the Gungeon, Hades, Dead Cells, Spelunky o Unexplored, dato che il peso dato alle decisioni tattiche viene sostituito da altre maccaniche rilevanti. Chiaramente, questo non vuol dire che i roguelite manchino di profondità, ma semplicemente che le abilità richieste al giocatore sono diverse in qualche misura.
Il sottogenere dei roguelite, oggi, è molto più diffuso e apprezzato rispetto ai roguelike da cui tutto è iniziato. La maggior parte dei titoli di successo “alla Rogue” sono infatti dei veri e propri ibridi, che si limitano a prendere il classico loop di morti e rinascite, modificando in larga misura le meccaniche tipiche degli esponenti più tradizionali.
Molto semplicemente, “annacquare” la struttura tipica del roguelike permette di creare esperienze più accessibili (e quindi con un’utenza più vasta), più varie e potenzialmente più rifinite (basti vedere Returnal).
Se sei arrivato fin qui, però, ti starai accorgendo che qualcosa non torna: che dire di quelle esperienze come Spelunky, The Binding of Isaac, Crown Trick o Unexplored? Giochi molto vicini alla filosofia dei roguelike più tradizionali, ma con una struttura di gioco che si distanzia dai classici del genere.
Roguelike e roguelite – due estremi di una polarità
La risposta alla domanda sta nel fatto che i roguelike e i roguelite non vanno visti come due opposti assolutamente inconciliabili e divisi da un muro invalicabile. Al contrario, sono due estremi di una polarità, dove poi si posizionano i giochi veri e propri.
Da un estremo troviamo giochi come Nethack, Brogue, ADOM, Pixel Dungeon, Jupiter Hell e altre esperienze che abbracciano in toto la filosofia hardcore del genere, dove il gameplay è estremamente vicino alle basi gettate da Rogue, condividendone caratteristiche molto marcate.
All’estremo opposto troviamo invece titoli come Ziggurat, Enter the Gungeon, Returnal, City of Brass, Slay the Spyre, Loop Hero e tutte quelle esperienze che partono dalla struttura gettata da Rogue, ma addolciscono la pillola della morte permanente, o modificano in modo consistente le meccaniche di esplorazione e combattimento, allontanandosi in misura piò o meno evidente dalla struttura di gameplay e della filosofia di gioco proposta da Rogue.
In mezzo, poi, troviamo giochi più o meno vicini a uno dei due estremi di questo segmento immaginario, come i già citati Spelunky o Unexplored che, pur avvicinandosi tantissimo alla filosofia hardcore dei roguelike – richiedendo quindi al giocatore di comprendere meccaniche complesse e negandogli ogni forma d’aiuto – si allontanano comunque dal gameplay nudo e crudo tanto amato dai puristi del genere.
Come accennato all’inizio, però, non c’è una definizione unitaria e condivisa di roguelike, soprattutto perché il termine è stato utilizzato in modo molto generale nel marketing dei videogiochi più famosi. Allo stesso modo, alcuni puristi estremi annoverano tra le caratteristiche del genere la grafica ASCII, restringendo di fatto il numero di giochi.
Il termine roguelike, però, non deve diventare una restrizione troppo rigida alla creatività degli sviluppatori che, anche proponendo un’esperienza vicina alla tradizione del genere, devono essere in grado di sperimentare e di aggiungere novità a una struttura che, purtroppo, si è mantenuta fin troppo elitaria e di difficile accesso per i neofiti, a parte qualche caso specifico.