Molto spesso, chi non conosce i videogiochi e vuole muovere una critica al medium senza informarsi adeguatamente, punta il dito contro la violenza, talvolta immotivata, e la brutalità di quanto viene visualizzato a schermo. Nulla di più generico e insensato naturalmente, sappiamo perfettamente che, per un’opera che punta sul dinamismo e la violenza (sempre e comunque contestualizzata, come nei DOOM e nei GTA), ce ne sarà sempre almeno un’altra, intenta a raccontare una storia e a puntare sulla bellezza del dialogo e della sensibilità dei personaggi.
Naturalmente, essendo un giocatore a tutto tondo che parla ad altri appassionati, non voglio assolutamente unirmi alla schiera delle critiche insensate, o condannare la violenza di qualche titolo, né tantomeno fare distinzioni nette. Basti pensare all’ultimo God of War: dietro la fisicità degli scontri a cui Kratos prende parte si cela una delicata storia familiare, fatta di accettazione della perdita e crescita del rapporto padre-figlio, una vicenda che è stata in grado di strapparmi più di una lacrima.
Essendo cresciuto a pane e Tekken 3, condito con tanto Metal Slug, man mano che diventavo un giocatore più maturo e consapevole dell’opera che avevo davanti e di ciò che mi si voleva raccontare, ho scoperto le storie toccanti dei Final Fantasy (soprattutto il conflitto familiare del IX o la tragica parabola del VII Crisis Core), gli intrighi fantapolitici dei Metal Gear Solid, e ho rischiato la depressione assieme a Chloe di Life is Strange.
Tutte storie che porto nel cuore con gioia e un pizzico di nostalgia e dolore (perché anche rigiocandole non potranno sorprendermi come la prima volta), ma devo ammettere che un titolo più di tutti mi ha sconvolto, e ha indubbiamente sconvolto tanti altri e rivoluzionato, a modo suo, l’industria videoludica. Si tratta di Undertale, titolo a cura di Toby Fox giocato e rigiocato da migliaia di persone ancora oggi, a sei anni dal lancio.
Il concetto di videogioco pacifico e basato sul dialogo in Undertale viene portato all’estremo, potremo infatti risolvere ogni conflitto semplicemente parlando coi nostri avversari, scelta che, se perseguita fino in fondo, porterà a compiere l’iconica Pacifist Run. Signs of the Sojourner mi ha fatto riaffiorare alcuni sentimenti che avevo provato proprio col titolo di Toby Fox, l’oggetto della nostra recensione infatti è capace di dare al dialogo un’importanza nuova e inedita, creando probabilmente un caso unico nel panorama videoludico.
La trama… parliamone…
Il titolo punta principalmente sulla trama, e riesce a far appassionare il giocatore non grazie a un racconto particolarmente strutturato o sorprendente, ma piuttosto grazie ai numerosi personaggi secondari e alle relazioni che riusciremo a instaurare con loro.
Lo scheletro principale dell’avventura sarà un viaggio on the road: dopo che nostra madre sarà venuta a mancare, decideremo di ripercorrere i suoi passi per scoprire il più possibile su di lei; nel farlo, verremo a contatto con diversi personaggi che hanno instaurato rapporti con lei in passato, e sarà davvero caratteristico vedere come reagiranno nel conoscere il figlio di una vecchia amica.
Allo stesso tempo, incontreremo personaggi che non hanno mai conosciuto nostra madre, che per svariati motivi ci accompagneranno per una parte del viaggio (o anche fino alla fine a seconda dei bivi che la storia prenderà), con loro andremo letteralmente a costruire la nostra storia personale, ci aiuteranno a maturare e a formarci, portandoci a riflettere su aspetti della vita e delle nostre avventure sempre nuovi.
Potrà sembrare un discorso metaforico e che rompe la quarta parete del gioco, in realtà, come vedremo nella sezione dedicata al gameplay, la crescita interiore del personaggio si riflette letteralmente nella progressione del gioco, pur lasciando trama e mondo di gioco ben divisi dalla parte più pratica del gameplay stesso.
Il mondo di gioco poi è qualcosa che, per quanto distante dalla nostra cultura, potrebbe a tratti farti sentire a casa, specialmente se vivi in realtà abbastanza piccole in cui capita di scambiare qualche chiacchiera anche con perfetti sconosciuti. Il viaggio del protagonista ci porterà a scoprire un mondo palesemente ispirato a un’ideale America rurale e situazioni alquanto idealizzate che, semmai sono davvero esistite, ormai fanno parte del passato.
Pertanto, la trama e il mondo di gioco, uniti alla semplicità dei personaggi, riescono a trasmettere un senso di malinconia e nostalgia, ma tuttavia a portare anche serenità nel cuore e nella mente del giocatore, facendo volare i ricordi a tempi ormai passati.
Quattro chiacchiere sul gameplay
Per quanto riguarda il gameplay, penso che ci troviamo davvero davanti a qualcosa di unico al giorno d’oggi, per quanto in realtà si tratti di un’interessante variante sul tema di un altro genere. Nello specifico, la vera base di Signs of the Sojourner è la visual novel, genere estremamente popolare per il mercato videoludico orientale, ma abbastanza ignorato nel resto del mondo, qui in Italia per esempio se ne sente parlare quasi esclusivamente citando Ace Attorney, Steins; Gate o Doki Doki Literature Club!
Questo genere mette i giocatori davanti a schermate fisse in cui i personaggi dialogano tra loro, l’unica azione che saremo portati a compiere sarà scegliere tra diverse risposte che potranno influenzare l’andamento della conversazione e di conseguenza i nostri rapporti coi personaggi e lo sviluppo della trama. A questa struttura classica Signs of the Sojourner unisce una componente da gioco di carte a turni semplice, ma che si rivelerà ben strutturata e decisamente appagante.
Quando nel paragrafo precedente accennavo che la nostra maturità come personaggio si rifletterà nel gameplay non esageravo. Un iniziale tutorial ci spiegherà le basi del gioco: l’intera struttura si basa sul dialogo, ma per portare avanti le conversazioni dovremo impilare delle carte che comporranno il nostro mazzo iniziale. Le carte in questione assomigliano alle tessere del domino e avranno uno o più simboli da un lato e l’altro.
Per creare intesa tra i due dialoganti, che inseriranno una carta a turno, i simboli dovranno combaciare, in caso contrario accumuleremo una penalità. Dopo un determinato numero di volte in cui non siamo riusciti a trovare intesa col personaggio il dialogo terminerà, cambiando il nostro rapporto col personaggio in questione e lo svolgimento della trama stessa.
A queste regole di base poi se ne aggiungono diverse altre che vanno a rendere il gameplay sempre più strutturato: allineando quattro simboli uguali, per esempio, si costituirà una sorta di scudo che servirà a prevenire una penalità, troveremo poi carte con effetti speciali che potranno sostituire le carte nella nostra mano, farci vedere la mano dell’avversario oppure copiare l’ultima carta giocata.
Una carta speciale molto particolare è quella relativa alla fatica. Questa carta apparirà nel nostro mazzo dopo qualche giorno di viaggio e il suo utilizzo porterà in ogni caso al malinteso, l’unico modo per rimuoverla dal mazzo è fare ritorno a casa e riposare. Così facendo però il viaggio terminerà e ne perderemo una parte, questo ci mette di fronte a una scelta: incontrare personaggi rischiando di rovinare i rapporti con loro a causa della stanchezza o tornare a casa sperando di incontrarli in un viaggio successivo?
Questa scelta così punitiva si rivela davvero interessante e sarà dura per i giocatori decidere ogni volta cosa fare, dal punto di vista pratico poi introduce un certo livello di strategia e gestione nel gameplay. Questi due aspetti si riflettono anche nella costruzione del mazzo: dopo ogni dialogo potremo inserire una carta (a scelta tra due) tra quelle giocate dall’avversario, questa scelta sarà obbligatoria e, se sulle prime la faremo con una certa leggerezza, avanzando nel gioco ci renderemo conto di quanto in realtà questa decisione sia pesante.
Dal punto di vista concettuale infatti, accettare una carta dopo un dialogo significherà aver imparato qualcosa dal personaggio da cui la riceviamo: è questa la maturità crescente del personaggio a cui facevo riferimento prima, e quando sono arrivato a comprendere il tutto sono rimasto davvero stupefatto. Se inizialmente due simboli bastavano per portare a termine i dialoghi, man mano mi sono ritrovato davanti a simboli nuovi e poi a personaggi che facevano uso di molti simboli in un solo mazzo.
Queste situazioni porteranno inizialmente a una “sconfitta” inesorabile del giocatore, non saremo infatti emotivamente pronti a sostenere determinati dialoghi. Questo diventerà possibile soltanto man mano che il personaggio maturerà e scoprirà sensazioni e sentimenti nuovi, che lo porteranno a evitare i malintesi con gli altri personaggi: un perfetto esempio di come un titolo con premesse semplici possa in realtà nascondere una profondità sorprendente adottando le giuste metafore.
Unica e grandissima nota dolente: il titolo non ha ricevuto (ancora) una traduzione italiana; essendo il genere di appartenenza basato principalmente sulla lettura di imponenti muri di testo, questo particolare potrebbe renderlo inaccessibile ai più, essendo anche un inglese non semplicissimo da interpretare. Un vero peccato che affligge in modo particolare il mercato degli indie, speriamo che una traduzione italiana di Signs of the Sojourner (assieme magari a quella di Disco Elysium) possa arricchire presto il panorama indipendente italiano.
“Parlare d’arte…
… è come ballare d’architettura” (semicit.).
Per quanto il genere visual novel ci metta quasi esclusivamente davanti a immagini fisse, molto spesso il genere è particolarmente apprezzato anche per la qualità della direzione artistica, Signs of the Sojourner non fa eccezione!
Lo stile adottato ricorda per molti versi un riuscitissimo mix tra Steven Universe e Adventure Time. Ho sempre amato queste due opere perché riescono a fare qualcosa di davvero intelligente: dietro una patina allegra e colorata nascondono personaggi e storie per nulla infantili, dai tratti spesso inquietanti e che richiedono molta attenzione da parte dello spettatore per essere seguite per bene.
Signs of the Sojourner fa lo stesso e lo fa bene, come anticipato, c’è una melanconia di fondo che permea l’intero viaggio, e anche la premessa, ricostruire la vita di un genitore defunto, non è delle più allegre. Una grafica cartoonesca dalle tonalità costantemente pastello cela in realtà personaggi e dialoghi capaci di trasmettere disagio e inquietudine per il contesto in cui sono calati. Non che questo renda il titolo un horror psicologico, piuttosto è più degno di nota questo contrasto tra colori e tristezza che i momenti, che non mancano, in cui ci troviamo effettivamente in contesti allegri.
Anche la colonna sonora punta sul suscitare malinconia nel giocatore grazie a sonorità fortemente incentrate sull’uso della chitarra acustica e del banjo che ancora una volta richiamano a contesti tipici dell’America rurale.
In definitiva, Signs of the Sojourner è un titolo che riesce a sorprendere con un gameplay unico e un’attenzione verso i sentimenti provati dai personaggi fuori dal comune. Una direzione artistica azzeccata completa un quadro già di suo positivo, soprattutto su Nintendo Switch che, con la sua portatilità, ne impreziosisce la fruizione. Purtroppo, al momento è consigliato solo a chi conosce davvero bene, o magari vuole approfondire, la lingua inglese essendo ancora privo di una traduzione italiana.