La sindrome da fine gioco scaturisce in seguito alla conclusione di un percorso nel quale abbiamo conosciuto i protagonisti, ci siamo affezionati a loro, in alcuni casi li abbiano anche odiati, ma abbiamo comunque conosciuto le loro storie, i loro caratteri e in qualche modo ci siamo anche ritrovati in essi, o semplicemente immedesimati. Ma come tutto ciò che ha un inizio e una fine, un gioco prima o poi finisce.
Non ci si rende subito conto, a volte si vivono le fasi finali illudendosi che quella non sia la fine, mentre si assiste alla cinematica o il video di chiusura si pensa che al termine di questo si potrà riprendere nuovamente il controllo del nostro personaggio e continuare la storia che in qualche modo, nella nostra mente, può avere un seguito anche se palesemente è impossibile.
Trama, caratteri dei personaggi e colpi di scena: cosa ci spinge a proseguire e cosa ci manca alla fine di tutto
Ovviamente non sto parlando di qualsiasi tipo di gioco, ma se vi capita anche su Moto GP o FIFA, avete bisogno di qualcuno bravo. Sono i giochi con la storia più curata e le trame intrecciate che ci toccano maggiormente, dove le storie dei personaggi con caratteristiche studiate per farci immedesimare in almeno uno di essi, s’intrecciano tra loro. Quando ci sono di mezzo le emozioni si può perfino arrivare a provare stima, in qualche modo capire e giustificare o addirittura amare un cattivo: avanti, sfido chiunque di voi a non aver trovato empatia verso Seifer di Final Fantasy VIII oppure (brivido) Jetstream Sam di Metal Gear Revengeance e non dimentichiamo (qui piango davvero) Kain in Soul Reaver.
Entrare in empatia con i personaggi, non solo protagonisti, ma anche quelli di contorno, serve a creare un legame con il gioco, che ci spinge ad andare avanti per capire ogni aspetto di quel soggetto che ha destato in noi l’interesse: cercare di capire come reagirà se la storia dovesse andare in un determinato modo, vedere se nonostante le avversità il nostro eroe continuerà ad affrontarle come ha fatto finora o si lascerà sopraffare, sperare, in quelle parti di storia dove l’epilogo deve necessariamente essere come previsto dal copione, di poter cambiare in qualche modo le sorti per fare procedere la storia verso un finale favorevole per i nostri beniamini.
E così ci appassioniamo, le nostre aspettative crescono e più andiamo avanti, più ci leghiamo a quelli che dimentichiamo essere soltanto linee di codici battuti su una tastiera, ma che in qualche modo, per qualche strano meccanismo biochimico riescono a passare dall’essere un’entità elettronica a un’emozione dentro di noi, in grado di stimolare realmente delle reazioni nel nostro organismo, come paura, apprensione, simpatia e antipatia, ilarità, o altri meccanismi che si sviluppano solo a livello sociale, come la il provare stima o ammirazione: voglio dire, come si fa a stimare o provare ammirazione per un insieme di codici? Eppure accade.
[…]come si fa a stimare o provare ammirazione per un insieme di codici?[…]
Queste reazioni ed emozioni ci accompagnano a volte per ore, suddivise in vari giorni e a volte settimane di gioco, in un susseguirsi di momenti dove tutto sembra andare per il meglio intervallati da attimi drammatici e colpi di scena, che ci fanno temere in alcuni casi di perdere il contatto con quel personaggio e dover proseguire senza di lui e a volte succede, specialmente nel caso di personaggi non protagonisti.
Ricordo la scena in cui Max Payne rientra in casa e trova la figlioletta e la moglie uccise. Quando ci giocai da ragazzino per la prima volta non mi colpii più di tanto. Di recente l’ho rigiocata da marito e padre e pur sapendo cosa mi aspettava, il momento dell’ingresso in quella maledetta stanza mi ha commosso tanto da non riuscire a trattenere le lacrime.
È arrivata la fine, finalmente… o purtroppo
Restando su Max Payne, passiamo ore e ore a schivare proiettili in livelli complessi che sempre più si popolano di nemici agguerriti dal grilletto facile, ci imbottiamo di antidolorifici per andare avanti, passiamo dall’essere sotto copertura, all’essere braccati dai nostri stessi colleghi che ci accusano dell’omicidio del nostro migliore amico e collega, veniamo torturati, drogati, quasi uccisi, per scoprire che la morte della nostra famiglia non è stato un tragico caso o l’atto di un gruppo di psicopatici imbottiti di droga, ma un’azione organizzata da parte della compagnia per la quale nostra moglie lavorava, per tapparle la bocca su alcuni documenti che aveva avuto tra le mani per puro caso. Da quel momento in poi l’obiettivo è quello di accumulare più rancore possibile verso la mente di tutto ciò, per scaricarglielo addosso un proiettile alla volta e finalmente ci ritroviamo sul tetto di un grattacielo durante la tempesta di neve più violenta nella storia di New York, con un elicottero che precipita con a bordo la causa del nostro dramma, mentre poliziotti alle nostre spalle fanno irruzione giusto in tempo per godersi la scena finale della nostra vendetta, come se nulla potesse impedirgli di perdersi il finale di quel film, mentre dal ciglio del tetto guardiamo i rottami in fiamme che precipitano verso l’inferno di neve e fuoco sottostante. Con un’ultima frase nel perfetto stile noir che caratterizza il gioco, Max ci annuncia la fine neanche tanto velata in un drammatico “Era la fine, l’ultimo proiettile fu come il punto esclamativo a chiusura di tutto quanto. Era tutto finito“, fade to black, titoli.
[…] il momento dell’ingresso in quella maledetta stanza mi ha commosso tanto da non riuscire a trattenere le lacrime[…]
Chi non ha i brividi ripensando a questa scena deve avere avuto un’infanzia drammatica, ma immagino e spero, che gran parte di voi stiano provando la sensazione di nodo in gola o i peletti sul braccio che si stanno alzando e a voi chiedo: cosa avete provato quando avete realizzato che il gioco finiva lì? Niente più sparatorie al rallentatore sospesi a mezz’aria, niente più intermezzi romanzati noir, niente più colpi di scena, ma solo la certezza che quella storia e tutti i personaggi che ne hanno fatto parte, avevano esaurito la loro esistenza narrativa.
Qualcuno potrà dire che c’è la possibilità di ricominciare il gioco, farlo a livelli più difficili, prendere altre strade, raccogliere collezionabili. Bene, ma la storia andrà sempre in quel modo, il personaggio sarà sempre lui, l’epilogo sarà sempre quello e non continuerà oltre. Inoltre, concentratevi sulla prima volta che avete concluso un gioco, pensate alle sensazioni che avete provato, a come vi siete sentiti per la prima volta in assoluto e provate a dirmi se la seconda, la terza e così via, sono state anche lontanamente paragonabili alla prima.
Feelings makers: i giochi che mi hanno più emozionato, per i quali ho desiderato che il finale non arrivasse mai
Max Payne era una storia che doveva finire, il tormento di quell’uomo è durato anche troppo e nonostante ci siano stati due seguiti nei quali si porta dietro tutto il suo dolore, il primo capitolo mi ha lasciato un vuoto così grande da non poter essere colmato dal finale degli altri due capitoli. Era come se mi mancasse comunque qualcosa dentro, come un puzzle nel quale manca l’ultimo pezzo ma sai che quello che stringi mano non s’incastrerà nell’ultima casella, un appagante vuoto malinconico e nostalgico di qualcosa che non vedevi l’ora che arrivasse al suo epilogo e mai avresti pensato che lo stesso ti avrebbe causato quel dispiacere incolmabile.
Ma che dire di SOMA? Un uomo destinato a morire a causa di una malattia incurabile al cervello, il quale, in un tentativo disperato, si affida alle cure di un medico che grazie a un sistema all’avanguardia, promette di riuscire a prolungare la sua esistenza e permettergli di proseguire una lunga vita. Ci addormentiamo su una lettiga di una moderna clinica e come in un incubo ci risvegliamo in un futuro di un mondo in rovina, il quale a causa di una catastrofe non meglio definita, si ritrova negli abissi dell’oceano e svuotato da ogni forma di vita organica: l’umanità non esiste più.
Solo più avanti, a metà inoltrata del gioco, dopo aver incontrato robot senzienti ma abbandonati a se stessi e intrappolati nei vari ambienti che abbiamo visitato, portando con noi una radio con una voce amica che ci attende da qualche parte, facciamo l’amara scoperta di essere noi stessi una coscienza umana installata in un corpo meccanico, come lo sono tutte le macchine incontrate finora e la voce che ci ha guidati finora, altro non è che una persona che ha subito il nostro stesso destino, lo stesso dell’intera umanità e che adesso si trova in quel comunicatore che credevamo fosse una radio, ma che si tratta invece del suo “corpo” nel quale la sua coscienza è stata trasferita. La speranza è quella di poter lasciare il nostro corpo per poterlo trasferire all’interno di un enorme server installato all’interno di una capsula di salvataggio da spedire nello spazio, nel quale sono state trasferite le coscienze di tutta l’umanità, le quali vivono inconsapevoli in un mondo virtuale altamente realistico, una specie di Matrix dove il corpo però non esiste più, nella speranza di poter essere recuperate da una forma di vita superiore e avanzata, che possa trasferire quelle coscienze in nuovi corpi e ridare loro nuova vita.
Troviamo la capsula, prepariamo tutti i sistemi per il trasferimento della nostra coscienza dal corpo meccanico all’interno del server insieme a una copia della nostra guida, attiviamo il sistema e lanciamo la capsula, ma stranamente la vediamo allontanarsi da noi… Ma perché non stiamo vivendo all’interno del server adesso? Cos’è successo? Perché continuiamo a vivere in questo mondo in rovina, destinati a rimanere intrappolati in questo corpo meccanico per l’eternità, tra macchine impazzite e infinita desolazione? Perché la nostra guida solo adesso si dice dispiaciuta, spiegandoci che non si tratta di un trasferimento, ma di uno sdoppiamento e che le due coscienze continueranno a vivere ognuna la propria esistenza?
Ed è con questa rivelazione che il gioco finisce, tra le urla di disperazione della prima coscienza che ha vissuto tutta l’odissea, consapevole solo ora che una sua copia si è salvata da quella dannazione. Ma il gioco, beffardo, ci mostra anche il risveglio della copia all’interno della capsula, la quale adesso non è più prigioniera di un corpo robotico, ma ha ripreso un aspetto umano, seppur virtuale e vive all’interno di una simulazione che ricorda in ogni aspetto il vecchio mondo, con alberi, fiori e mari, mentre convinti di avercela fatta prendiamo per mano la nostra vecchia guida, ora anch’essa umana, incamminandoci verso il sole che si specchia sull’acqua e tutto sembra reale, ignari del fatto di aver abbandonato una parte di noi a vagare e affondare nella sua disperazione che l’accompagnerà in eterno.
[…]un appagante vuoto malinconico e nostalgico di qualcosa che non vedevi l’ora che arrivasse al suo epilogo e mai avresti pensato che lo stesso ti avrebbe causato quel dispiacere incolmabile[…]
Il vuoto che lascia SOMA è qualcosa di incolmabile che ancora oggi non riesco ad accettare: mi immedesimo nella prima coscienza, quella che ho vissuto nelle diverse ore di gioco e penso alla seconda coscienza, che adesso sta vivendo chissà dove nello spazio, convinta di essere stata trasferita con successo ed essersi così salvata, ignorando totalmente che la prima sia rimasta intrappolata in quel limbo, vivendo in un tormento che durerà per sempre.
I Am Alive infine, è uno di quei giochi che solo alla fine capisci realmente cosa sia successo… E neanche lì a dire il vero. Vestiamo i panni di un uomo in cerca di sua moglie e sua figlia in un mondo devastato da catastrofici terremoti a livello globale che hanno distrutto tutto e condotto l’umanità al collasso. I sopravvissuti si raccolgono in piccoli gruppi per cercare di tirare avanti, o si organizzano per fare razzia e uccidere chiunque si opponga a loro. Le nostre armi sono solo l’attrezzatura da arrampicata e una videocamera con la quale di tanto in tanto registriamo dei messaggi, come un video diario da far vedere alla nostra famiglia una volta ritrovata.
Ci muoviamo tra ambienti polverosi e decadenti con prevalenza di grigio, tanto da ricordarlo come fosse in bianco e nero, incontriamo superstiti che chiederanno il nostro aiuto e predoni che cercheranno di prendere le nostre vite e intanto, seguiamo gli indizi che uno dopo l’altro ci fanno visitare luoghi dove potrebbero trovarsi i nostri cari, ma senza mai trovarli. La fase finale del gioco ci vede strisciare tra un gruppo consistente di nemici che ci bloccano il passaggio, pronti a farci fuori a vista, ma la nostra preoccupazione non è solo quella di salvare la pelle, perché con noi c’è una ragazzina trovata lungo il nostro cammino, una copia quasi identica di nostra figlia in cerca di sua madre, la quale sappiamo trovarsi su un traghetto che sta per salpare verso un luogo sicuro. Giunti sul posto ed eliminata ogni minaccia, riusciamo a condurre la ragazzina da sua madre, la quale ci parla di un campo di accoglienza a due giorni da noi, nel quale potrebbe trovarsi la nostra famiglia. Registriamo un ultimo video con la nostra videocamera, nel quale ci riprendiamo dicendo alla nostra famiglia che stiamo arrivando da loro e che tutto andrà bene, ma la scena finale che segue la frase “…se sei ancora qui, io ti troverò, troverò un modo per arrivare da voi…” ci fa sussultare.
A questo punto l’inquadratura sta mostrando lo schermetto della videocamera sul quale viene riprodotto il nostro ultimo messaggio in primo piano, tanto da occupare tutta la visuale e quando il campo comincia ad allargarsi, mostra qualche dettaglio di una stanza dietro lo schermo a sportellino. Come in ogni scena di chiusura di una zona di gioco, si crede di guardare l’ennesima registrazione che il protagonista fa per la sua famiglia e si pensa già a chissà quale viaggio dovremo fare adesso per raggiungere i nostri cari, ma la persona che la regge adesso non è più lui, ma una donna che sospira e piange seduta su una sedia e con un tavolo davanti sul quale poggia la videocamera, il campo si allarga ancora e su un tavolo alle sue spalle giace il nostro zaino e la nostra attrezzatura.
Solo adesso ci rendiamo contro che la storia che abbiamo vissuto per tutto il gioco era dunque la riproduzione dei video della nostra videocamera ritrovata in qualche modo da nostra moglie, ma qualcosa è andato storto, qualcosa per la quale adesso non siamo con lei. Cos’è successo? È questa la domanda alla quale ancora non ho risposta e l’appagamento di aver portato a termine un gioco abbastanza difficile, specie se giocato a livelli alti di difficoltà, non è sufficiente per pareggiare la sensazione di malinconia e desolazione generata da questo finale. I Am Alive ha lasciato dentro di me la stessa devastazione che la catastrofe globale ha causato al mondo intero, qualcosa di profondo e terribilmente irrimediabile.
[…] I Am Alive ha lasciato dentro di me la stessa devastazione che la catastrofe globale ha causa al mondo intero, qualcosa di profondo e terribilmente irrimediabile[…]