Ora che sono in vendita le riproduzioni dei personaggi di Street Fighter, rivediamo insieme un po’ la storia di questo gioco iconico.
Il beat’em up Capcom incarna, in ognuna delle sue edizioni, l’essenza stessa del videogioco. E questo non solo come forma di intrattenimento, ma anche di sfide testa a testa. Vincere, restare in piedi, esultare di fronte alla sconfitta dell’avversario e, di conseguenza, godersi il momento tutto speciale della vittoria cristallizzato in quel “you win”, di digitalizzata memoria.
Botte, pugni e calci. Ma anche mosse speciali, personaggi improbabili e, pure, tecnica pura. Un universo a parte, lontano anni luce dalle produzioni concorrenti dell’epoca. Persino da quelle ad esso direttamente ispirate.
Prima ancora di essere idealizzato come gioco principe degli anni ’90, è nelle sale giochi che nasce Street Fighter II e, tutto sommato, muore. Ma solo per certi versi, poiché il picchiaduro Capcom, tutto sommato, rivendica lo status di Highlander videoludico, sopravvivendo. In natura lo fanno solo le specie più forti e intelligenti, anche alla fine del proprio habitat naturale.
La nostra storia, quella che vogliamo raccontare, parte nell’estate 1987. In discoteca, si canta e si balla The Final Countdown degli Europe. In sala giochi, tutto un altro scenario.
Il tempo, scandito dai suoni digitali dei millemila giochi presenti, passa. Si sorseggia Coca Cola appoggiati, magari, ad un nuovo cabinato appena arrivato dal lontano Giappone.
Si chiama Street Fighter ed è una novità, di quelle che, ancora non lo sai, ma rischiano davvero di risucchiarti tutti i gettoni faticosamente barattati in cambio di monete vere. Infili la prima e sì! Comincia davvero la nostra storia.
Il primo Street Fighter non fu una rivoluzione, ma gettò le basi che, ancora oggi, sostengono quella filosofia. Nei panni del giapponese Ryu Hoshi, giovane karateka dai capelli rossicci e bianco kimono, il giocatore è chiamato ad affrontare un world tour in giro per il mondo. Questo, attraversando cinque diverse nazioni per 10 diversi antagonisti, da affrontare rigorosamente a turno secondo uno schema abbastanza rigido.
Dal Giappone agli Stati Uniti, per poi tornare in Oriente, in Cina, e abbracciare, poi, la Vecchia Europa, in Inghilterra.
I due ultimi incontri
Programmati in Thailandia, sono l’ultimo ostacolo per la conquista del titolo di campione del neonato e, all’epoca, neppure così prestigioso torneo. Takashi Nishiyama e Hiroshi Matsumoto, i due sviluppatori Capcom a capo del progetto e reduci dal discreto flop di un beat ’em up a scorrimento titolato Avengers, ancora non lo sanno. Scopriranno presto di avere dato vita ad alcune caratteristiche cardine del picchiaduro ad incontri moderno.
Partiamo dal cabinato, che, oltre a racchiudere un processore proprietario basato su Motorola 68000, presenta, nella sua versione più diffusa, una plancia di gioco dotata del classico stick. Detiene, inoltre, ben 6 tasti.
Tre per i pugni e tre per i calci
Si tratta, al netto, di una versione a visione alternativa, ma fin troppo delicata. Essa è dotata di soli due pulsanti “pneumatici” e arcaicamente analogici. È un primo e importante passo verso la ridefinizione tecnica del gameplay, invero piuttosto basilare, che fino a quel momento aveva caratterizzato il genere. Se pur preso come parziale fonte ispirazione da raggiungere e superare, le differenze con Ye ar Kung Fu di Konami sono abissali.
L’alternanza tra calci e pugni, ma soprattutto la differenza di potenza e velocità tra colpi forti, medi e deboli, impatta su tempi, ritmi e giocabilità, garantendo una inedita profondità ad ogni scontro. Una sorta di balletto fatto di mosse, parate e contromosse.
Il primo personaggio non si scorda mai
Il lavoro svolto sul personaggio di Ryu, destinato ad assurgere al ruolo di icona della stessa Capcom prima ancora che della serie, è certosino.
Travalicando i limiti di un mero avatar digitale, il karateka, infatti, sfoggia tre mosse speciali, attivabili tramite diverse combinazioni tra stick e pulsanti. Una sorta di sfera di energia, ossia l’Hadoken, il calcio ad uragano o, se si preferisce, ad elicottero, il Tatsumaki Senpukyaku. E non dimentichiamoci del montante in salto, lo Shoryuken che, già dal nome, richiama tanto il protagonista quanto la sua spalla.
Ken Master, passaporto americano e caschetto biondo alla Nino D’Angelo, è il secondo personaggio utilizzabile, ma solo ed esclusivamente negli scontri tra due giocatori umani. Il resto della cricca, confinata all’esclusivo controllo della CPU, vanta due lottatori per ogni nazione visitata.
In Giappone, tra templi e tradizione
Ricordiamo il maestro di Shorinji Kempo Retzu, canonicamente considerato il primo avversario nella storia della saga, e il ninja Geki, dotato di artiglio illuminato dai riflessi del tramonto che si staglia sul monte Fuji.
Gli Stati Uniti si fanno in due
Tra i vagoni di una stazione metropolitana prima e il Monte Rushmore dopo, fanno la loro comparsa Joe e Mike, rispettivamente un maestro di arti marziali in salsa suburbana e un pugile di colore da pesi massimi.
In Cina con furore
Qui, a farla da padroni sono il Kung Fu, con il bonario Lee, esperto di arti marziali di casa sulla suggestiva muraglia, e il crudele Gen, un assassino professionista a suo agio nei sobborghi metropolitani.
In Inghilterra un solo grido
L’enorme punk Birdie, munito di catene e vestiario in pelle, alterna il suo stile caciarone con la risolutezza di Eagle, guardia del corpo di una nobile famiglia britannica arroccata in uno splendido castello sul lago.
Qualunque sia la scelta della nazione iniziale, il tour si concluderà in Thailandia, sfidando i due campioni locali di Muay Thai. Con alcuni splendidi monumenti a fare da sfondo, Ryu dovrà prima sconfiggere Adon e poi il suo maestro Sagat, re del Muay T e campione uscente del torneo Street Fighter che, con uno shoryuken ben assestato, cambia proprietario.
Inizia l’era di Ryu e anche di una delle saghe più longeve e di successo nell’industria del videogioco
La mera elencazione di personaggi e ambienti non rende giustizia ad una sorta di trama appena accennata nel titolo, poi sviluppata nel corso degli anni.
Nulla di trascendentale, per carità. Eppure, l’amicizia, mista ad una sana competitività tra i due protagonisti, e l’odio di Sagat per Ryu restano punti cardine dell’universo di Capcom. C’è da dire, invero, che, all’epoca, la società era tutt’altro che intenzionata a investire ingenti risorse su un eventuale seguito del suo primo picchiaduro.
Street Fighter, infatti, non fu esattamente un successo planetario
Pur riscuotendo buoni consensi in Giappone, il cabinato incontrò moderata fortuna nel resto del mondo. Nishiyama e Matsumoto lasciarono la compagnia per accasarsi con SNK e, negli anni seguenti, apporre la loro firma su altre storiche saghe del beat’em up nipponico.
La tiepida accoglienza riservata al gioco non era, per altro, del tutto ingiustificata. Street Fighter non era certo perfetto, anzi! In un mercato popolato da generi che, già all’epoca, avevano raggiunto una buona maturità – basti pensare agli altri picchiaduro giapponesi – era difficile affermarsi con tali caratteristiche.
Nella Terra del Sol Levante, con le console a scorrimento, il gameplay del titolo Capcom appariva all’epoca, per quanto lungimirante, forse anche poco appagante o, quantomeno, non conforme ai gusti dell’utente medio.
Troppo difficile eseguire le mosse speciali, troppo limitato il roster di personaggi selezionabili. In fondo, erano gli anni di Double Dragon e Out Run, giochi certamente più immediati e, anche, dal look decisamente più accattivante.
Insomma, Street Fighter venne presto dimenticato e di Ryu, Ken e Sagat, al netto di qualche conversione poco riuscita su home computer e dello splendido Fighting Street per Pc-Engine Super Cd-Rom2, non si parlò più
Almeno fino al 1991. Il mondo, in quel periodo, sta mutando. La Guerra del Golfo ha spazzato via i colori e l’allegria della precedente decade, per abbracciare toni più cupi. Anche nella musica, scompaiono dalla scena diverse icone pop e si affacciano i Nirvana e il grunge statunitense.
Con i 16 bit pronti a soppiantare definitivamente la vecchia generazione, si pensa a fare giochi. E che giochi!
Ed è in questo contesto che Capcom ci riprova, tirando fuori dal cilindro il gioco che avrebbe influenzato l’intera industria per un’intera epoca. Un’epoca fantastica.
È vero! La casa di Osaka aveva perso Nishiyama e Matsumoto, ma rispetto a quattro anni prima si ritrova con una CPS-1 in più. Il Capcom Play System-1 è la scheda giusta per tentare il colpaccio. Già a loro agio con un’architettura a 16 bit splendidamente sfruttata per il blockbuster Final Fight, gli sviluppatori di Capcom decidono che è arrivato il momento di rimettere mano al concept alla base di Street Fighter.
In cantina ci sono combattimenti in sequenza 1 VS 1 e sei tasti per la solita commistione di mosse base e speciali. A rendere grande la sua creatura, però, non sarebbe bastata una grafica migliore rispetto all’ormai antiquato predecessore.
Per questo, si decide di riscrivere il gioco da zero, introducendo una vera e propria story line, in realtà solo accennata durante le fasi di gioco. Si mantengono Ryu e Ken, affiancati da altri 6 combattenti selezionabili e provenienti da diverse parti del mondo, e si inserisce Sagat nel quartetto di boss finali. Il lavoro svolto sulla caratterizzazione dei personaggi, ma anche su quella degli sfondi, è mastodontico. Ryu e Ken, nel gioco originale praticamente identici se non nei colori, subiscono una prima e parziale, ma sicuramente importante, differenziazione.
Un rinnovamento dei personaggi
Cambiano i tratti somatici, con il caschetto del giapponese a fare da contraltare al taglio lungo dello statunitense. Cambia anche il carattere: più problematico e complesso quello di Ryu rispetto al guascone Ken, pronto a provocare i suoi avversari e a deriderne la scarsa potenza.
Il roster di mosse viene ampliato per entrambi, restando però tra loro identico. Tornano “la bolla”, il pugno del drago e il Tatsu Maki Senpuu Kyaku con tutta una nuova serie di animazioni, legate tra loro come mai visto prima. La scelta tra i due giovani lottatori, così, diventa più filosofica che tecnica.
Un primo spartiacque e, sotto questo aspetto, l’unico all’interno del roster che, invece, presenta altri 6 lottatori liberamente selezionabili e, tra loro, completamente diversi, è attuato. Un primo e vero accenno di narrazione all’interno dell’Universo.
I fatti narrati in Street Fighter II prendono spunto proprio dall’incontro tra Ryu e Sagat
Il Re del Muay Thai viene sconfitto con uno Shoryuken capace di squartare il petto del thailandese e, anche, di consacrare Ryu come vincitore del torneo. Il giapponese, torna così nel Sol Levante, sull’isola di Okkaido, nella consapevolezza di doversi ancora migliorare in vista delle future sfide.
Quando Vega diventò Bison?
Come molti sapranno, i nomi dei boss finali di Street Fighter
2, con l’esclusione di Sagat, sono stati “invertiti” nelle versioni occidentali del gioco. La somiglianza del pugile M. Bison con
il vero Mike Tyson, infatti, portò Capcom a modificarne il nome, onde evitare problemi legali. Così, Vega, l’ultimo boss, assunse il nome di Bison in occidente, lo spagnolo Balrog si trasformò in Vega e il pugile, appunto, in Balrgog. Il perché non si pensò, semplicemente, di cambiare il nome del boxer, resta, tutt’oggi, uno dei più grandi misteri nella storia degli adattamenti.
Passano gli anni, ma non lo spirito indomito di Ryu che, venuto a conoscenza di un nuovo torneo indetto da Vega (M. Bison nelle versioni occidentali), villain dalle derive dittatoriali e a capo dell’organizzazione criminale Shadaloo, decide, insieme a Ken, di prendere parte alla competizione e confermarsi, così, il più forte lottatore della Terra.
Ai due protagonisti, si aggiunge un nuovo roster di contendenti, ognuno con il suo stile di lotta, ognuno con una motivazione ed una storia diversa
Per questione di cavalleria, è giusto cominciare la disamina con Chun-Li, giovane e apparentemente ingenua ragazza cinese, ma anche primo personaggio femminile selezionabile nella storia dei picchiaduro ad incontri.
Esperta lottatrice di jujitsu, ha uno stile di lotta basato principalmente su velocità e agilità, sensibilmente superiore rispetto a quella degli altri personaggi. Di non poco conto è la potenza delle sue mosse speciali, in primis lo Hyakuretsukyaku, devastante serie di calci ripetuti a incredibile velocità.
Chun-Li veste in qipao, un abito cinese in voga agli inizi dello scorso secolo, che maschera il suo ruolo di agente segreto dell’Interpol a caccia degli assassini del padre.
Le indagini portano proprio a Shadaloo. Mossa da un profondo senso di vendetta e giustizia, quella fai da te, Chun-Li partecipa al torneo per dare un nome e un volto al killer del defunto genitore.
Personaggi in cerca di vendetta
Subito dopo Ryu e Ken, principalmente per motivi legati al background narrativo messo in piedi da Capcom, troviamo per la prima volta Guile, ufficiale della Marina statunitense che, con Vega, pure lui, ha un conto in sospeso.
Guile, infatti, vuole vendicare la morte del suo migliore amico e collega Nash, morto in missione in Cambogia contro, neanche a dirlo, la terribile Shadaloo.
Sacrificando la sua famiglia – il soldato è sposato con prole – il nostro si iscrive al torneo mosso dal sentimento di odio contro l’organizzazione e il suo leader. Da un punto di vista tecnico, Guile è un personaggio prettamente difensivo, dotato di una mossa a
distanza, l’iconico Sonic Boom, e dal devastante Somersaut Kick, calcio rotante da fermo che, dal basso verso l’alto, è capace di colpire tre volte l’avversario.
Da un punto di vista stilistico, il personaggio mette in contrasto il tipico abbigliamento da marines, con canotta, pantaloni mimetici e anfibi, e le movenze eleganti. Eppure, quando partono calci e pugni, assolutamente deleterie.
Edmond Honda, invece, è un enorme lottatore di sumo, caratterizzato dal chonmage, ossia la tipica acconciatura, da mawashi, la tradizionale “divisa” a mo’ di mutandoni tipica della disciplina, e dal volto dipinto in stile teatro Kabuki. Nel caso non si fosse capito dal Sole Imperiale stampato in faccia, lo stile lega a doppio filo il personaggio con il Giappone, suo paese d’origine.
Già famoso nel suo paese, Honda decide di partecipare al torneo per far conoscere anche al resto del mondo il suo nome, il suo talento e l’intera disciplina, convinto che i lottatori di sumo siano i più forti in assoluto.
Il primo cabinato dell’originale Street Fighter era
disponibile in due versioni. Quella canonica a sei
tasti e quella, invece, con due tasti “pneumatici”, uno per i pugni e uno per i calci, che garantiva, tramite la pressione più o meno forte da parte del giocatore, di eseguire le varie tipologie di colpi. Nel giro di poco tempo, questo tipo di cabinato sparì dalla circolazione. Il motivo? I giocatori tendevano a “stressare” troppo i due pulsantoni, finendo per romperli. Le richieste di sostituzione dell’apparecchio convinsero quindi Capcom a stopparne la produzione e concentrarsi sul settino classico.
Lento nei movimenti a terra, ma tutt’altro che impacciato e, anzi, dotato di una insospettabile agilità nei salti, il lottatore vanta delle mosse assolutamente letali, come l’Hyakuretsu Harite, capace di moltiplicare i colpi degli arti superiori, e il Super Zutsuki, che lancia Honda, in stile missile umano, contro l’avversario.
Blanka è uno dei personaggi più originali del roster
Disperso, quando era un neonato, nella foresta amazzonica in seguito ad un incidente aereo, è cresciuto nella giungla, tra le piante, causa della pigmentazione tendente al verde della sua pelle, e gli animali, da cui ha “ereditato” velocità, ferocia, zanne affilate e dentatura aguzza.
Agile e potente, è uno dei lottatori maggiormente equilibrati. La sua mossa simbolo è l’Electric Thunder, una scossa elettrica da fermo letale a breve distanza.
La partecipazione al torneo di Blanka, vero nome Jimmy, si trasformerà nell’occasione di rincontrare la madre perduta capace di riconoscerlo (eh sì che ce ne vuole) grazie alle cavigliere indossate sin da bambino.
Originariamente, il personaggio era stato concepito come una sorta di cavernicolo, poi modificato per esigenze legate, anche, alla palette di colori da utilizzare.
Dal Brasile voliamo in India per fare la conoscenza di Dhalsim, maestro capace di “levitare” in aria e, anche, di utilizzare teletrasporto e fuoco come il Dio Agni. Anche Dhalsim gioca, si fa per dire, nella squadra dei buoni
La sua partecipazione al torneo, infatti, è giustificata con l’obiettivo di porre fine alla dittatura di Shadowloo, i cui soldati opprimono il villaggio dove il personaggio vive.
Dhalsim è un personaggio molto tecnico, che tampona la sua lentezza con un set di mosse speciali molto variegato.
Il santone sfrutta l’elasticità dei suoi arti, ma anche lo Yoga Fire, alito di fuoco capace di infiammare i suoi avversari a distanza proprio come lo Yoga Flame, per gli scontri ravvicinati.
Il nostro DataPlay prosegue con Zangief, wrestler per professione e nazionalista per vocazione, legato alla sua Unione Sovietica e considerato orgoglio nazionale anche dal presidente Gorbaciov, suo primo tifoso.
La partecipazione di Zangief al torneo è legata proprio alla volontà di far conoscere al mondo la forza dell’uomo russo
Oggi, può apparire banale. Eppure, nel 1991, tra Perestrojka e Ivan Drago, non lo era per nulla. Enorme, potente, ma anche lentissimo, Zangief lega il suo stile di combattimento alla lotta libera.
Le sue prese si alternano allo Spinning Lariat, mossa speciale importata da Haggar in Final Fight, che lo trasforma in una sorta di trottola letale ad una comunque relativa velocità.
Gli 8 personaggi selezionabili non chiudono il roster, impreziosito anche dai 4 boss che rappresentano, pure, i 4 combattimenti finali
Dopo aver sconfitto tutti i personaggi in una sorta di fase eliminatoria, infatti, il giocatore è chiamato ad affrontare in successione M. Bison (Balrog nella versione europea), un pugile che replica in pixel le fattezze di Mike Tyson, e poi Vega, combattente spagnolo con maschera al volto e uncino in mano. E ancora Sagat, assurto a luogotenente di Shadowloo, e infine Vega, capo dell’associazione criminale dalle fattezze pericolosamente simili a quelle di un generale nazista.
L’elencazione di personaggi e mosse speciali ci permette, quindi, di tracciare quelli che, ancora oggi, restano i punti cardine dell’esperienza di Street Fighter II
Facciamo un passo indietro. A capo del progetto ci sono Akira “Nin Nin” Nishitani e Akira “Akiman” Yasuda, già alle redini di Final Fight, e Yoshiki Okamoto nel ruolo di producer.
Un terzetto delle meraviglie, capace di mescolare professionalità, creatività e persino un pizzico di follia.
Giova ricordare che Okamoto, tanto per dirne una, arrivava in Capcom dopo un’esperienza in Konami da dove, pur portando a casa successi come Time Pilot (1982) e Gyruss (1983), si era praticamente fatto cacciare. A fronte della richiesta da parte dei vertici aziendali di sviluppare un gioco di guida, si presentò con uno sparatutto. Chiedendo per altro un aumento dello stipendio.
Anche su Yasuda, l’artista e il grafico dietro ai personaggi, giravano un sacco di storie strambe. Si dice che dormisse sul pavimento e negli sgabuzzini di Capcom, azienda cui si era presentato con tante belle speranze e la cravatta sopra al pigiama. Chiaramente fu subito assunto.
Per anni, i fan hanno pensato che i due lottatori che appaiono nella schermata introduttiva
di Street Fighter II, pronti a menarsi tra i grattacieli di una metropoli, fossero dei combattenti anonimi, senza una storia. E invece, anche loro fanno parte del “lore” della saga. Si tratta, infatti, di Joe e Mike, i due personaggi statunitensi dell’originale Street Fighter. Una circostanza che Capcom ha rivelato solo di recente.
A chiudere il trio, il talentuoso Nishitani che, dopo aver firmato il gameplay di Final Fight, si caricò il peso di dare senso ludico agli artwork dell’amico Akiman
A distanza di oltre due decenni, il lavoro di “Nin Nin” è ritenuto, ancora oggi, sintesi perfetta di tecnica e giocabilità, ma anche delle stramberie dei suoi compagni di viaggio. Nishitani mise ordine alle innovative, ma spesso strampalate idee di Okamoto, e diede vita alle bozze grafiche di Yasuda. Ci sono ambientazioni e personaggi che non dimenticheremo mai.
M. Bison, inizialmente non giocabile perché carismatico e cattivissimo boss finale, è senz’altro uno di loro!
Come detto, la base da cui partire restava il primo Street Fighter, la cui esecuzione di mosse speciali fu resa più abbordabile e meno frustrante. Per raggiungere l’obiettivo, venne dilatata la finestra di tempo necessaria per eseguire i comandi richiesti da una singola mossa, ora facilmente replicabile anche dai giocatori meno esperti.
Gli esperimenti sulle mosse speciali portarono, in maniera del tutto casuale, alla nascita di azioni tra loro concatenate
Ossia le “combo”, sequenze di colpi che, se eseguite col giusto tempismo, consentivano di legare animazioni e mosse singole e, quindi, di arrecare maggior danno all’avversario. Sotto l’aspetto prettamente ludico, le intuizioni degli sviluppatori si trasformarono in una vera e propria rivoluzione.
L’alternanza di colpi forti, medi e deboli ereditata dal suo predecessore, ma anche la profonda caratterizzazione dei personaggi, fecero il resto. Street Fighter II: The world Warrior fu un successo planetario.
Arrivato nelle sale giochi nei primi mesi del 1991, il gioco attirò subito una pletora di giocatori, che poi diventarono degli appassionati e, infine, degli esperti
L’accessibilità del titolo, infatti, mascherava un’incredibile profondità nelle meccaniche e del gameplay. Easy to play, hard to master, come direbbero gli americani. Un concetto tutt’altro che banale, perché ebbe il merito di accrescere quel concetto di competitività che, proprio in sala giochi, fece la fortuna del cabinato. D’altro canto, attorno alla raffinatezza del gameplay, ruotava un contorno dove nulla, anche sotto l’aspetto tecnico e artistico, era stato lasciato al caso.
La schermata introduttiva presentava due lottatori apparentemente anonimi combattere tra i grattacieli di una metropoli americana e un folto gruppo di spettatori che fanno il tifo
La musica è incalzante e la tensione, marchiata a schermo dall’espressione del combattente in primo piano, è tanta. Viene sferrato un pugno che colpisce in pieno volto il secondo lottatore, mentre la telecamera si alza e, lentamente, inquadra i piani alti di un grattacielo dove campeggia, appunto, uno schermo con il logo del titolo. Dissolvenza su nero, rotazione, zoom ed ecco che il gioco è fatto. Si chiama Street Fighter II: The World Warrior.
Una di quelle cose che non dimentichi più. Inserita la monetina, si viene subito lanciati nella schermata di selezione degli 8 personaggi giocabili
In alto appare una mappa del mondo, con sopra le bandiere delle nazioni interessate che si illuminano quando il lottatore di riferimento viene evidenziato. Una volta scelto il personaggio, un piccolo aeroplano compare su schermo, per volare dalla nazione del personaggio scelto a quella dello sfidante. Anche in questa fase, assume importanza la musica. Il comparto sonoro è affidato ad un quarto uomo.
Termine improprio perché, in effetti, si tratta di una coppia di musicisti
Sono Yoko Shinomura, compositrice già alle prese con il più volte citato Final Fight, e Isao “Oyaji” Abe, compositore arrivato in Capcom solo pochi mesi prima.
Il lavoro grosso è opera, comunque, proprio della Shinomura. Detto dell’intro e della schermata di selezione, la magia di Street Fighter II è, anche, nella sua incredibile soundtrack. Ogni lottatore e, quindi, ogni stage ha un tema differente, che alterna composizioni più ritmate a musiche più lente e riflessive.
Per avere idea di cosa si sta parlando, giova confrontare il tema di Ryu con quello di Ken: capaci, anche più delle differenze grafiche, di ricalcare i diversi background di due lottatori gemelli nel gameplay. Valga per tutti: ogni composizione si pone, ancora oggi, ai vertici del genere di riferimento, ma non solo.
Musiche senza tempo, in una sorta di everest musicale di quei chip sonori sostituiti, negli anni seguenti, da hardware e supporti ben più performanti. Eppure, molto meno magici.
La lotta continua tra update e versioni rivisitate
Il successo, si sa, logora. O, nel caso di Capcom, produce un numero di update del suo gioco principale. Le richieste dei fan, unite alla voglia della Casa di sviluppare Big Money col minimo sforzo, portò, nel giro di pochi anni, ad una lunga serie di update del gioco originale.
Prima fu la volta di Street Fighter2: Champion Edition (1992) che, al netto di qualche miglioramento grafico a sfondi e personaggi, permetteva di selezionare i 4 boss finali. (M.Bison, Vega, Sagat, Barlog)
Quindi, per far fronte ad un mercato parallelo con milioni – sì, milioni – di cabinati pirata sparsi per il globo, fu la volta di Street Fighter Turbo: Hyper Fighting, una sorta di miscellanea tra il gioco originale e, appunto, le hack rom sviluppate ad Hong Kong. Risultato: gioco più frenetico e nuove mosse speciali, in parte ispirate proprio dal “lavoro” dei pirati.
In SF II: The World Warrior, quando Ryu vince un incontro pronuncia nella schermata successiva la frase “You must defeat Sheng Long to stand a chance”, dando vita a una lunga serie di voci su chi, appunto, fosse effettivamente questo fantomatico Sheng Long, dai più esperti indicato, nelle sale giochi, come il maestro del protagonista, versione promossa dalla stessa Capcom negli anni successivi. In realtà, si trattò di un errore di traduzione durante l’adattamento in inglese dell’originale gioco giapponese. Sheng Long è, infatti, la traduzione sbagliata della parola Shoryuken, ovvero pugno del drago nascente. Capcom, ancora oggi, si diverte a giocare con i fan circa le origini del fantomatico maestro.
Nel 1993, Capcom decide di cambiare chip e, quindi, di esportare la serie sulla più performante CPS II. Con Street Fighter II: The New Challengers i cambiamenti si fanno più sostanziali.
Le animazioni dei personaggi vengono in parte riscritte e al “solito” roster si uniscono 4 nuovi combattenti
Cammy, giovane soldatessa dell’esercito inglese, T. Hawk, nativo d’America con tanto di piume in testa e tomahawk in mano, l’istrionico Dee Jay, capace di dividersi tra la sua passione per la kick boxing e l’amore per la musica jamaicana, e infine, Fei Long, in tutto e per tutto un emulo di Bruce Lee, agile e veloce.
Chiude la rassegna di update l’iconico Super Street Fighter 2 Turbo, che introduce per la prima volta l’esecuzione di Super da attivare previo caricamento della barra apposita, e festeggia l’ingresso di Gouki – Akuma, primo personaggio segreto della serie e vera alternativa potenziata ai due protagonisti. Inutile dire che praticamente ogni versione di Street Fighter II ha fatto poi la sua comparsa sui sistemi casalinghi dell’epoca.
Da Mega Drive a Super Nintendo, passando addirittura per una eufemisticamente discutibile versione per Commodore 64 sino a quella, splendida, per Pc Engine e alla meravigliosa conversione dell’edizione Super su 3DO.
Un successo senza precedenti, per un impatto sull’industria di proporzioni epiche che, sino alla fine del XX secolo, ha prodotto conseguenze importanti sul mercato
E così, mentre case come SNK, Namco e Sega proponevano le loro versioni di picchiaduro a incontri, Capcom preferì, per un bel po’, accantonare la serie regolare e lanciarsi, con alterni successi, in spin off. Ma questa, come detto, non è la nostra storia.
La nostra storia, infatti, salta volutamente la serie Alpha a cui sarà dedicato un altro intero articolo su iCrewPlay, The Movie e persino la serie Ex, esperimento poligonale affidato, ancora una volta, al solito Nishitani, nel frattempo approdato ad Arika, una nuova software house di belle speranze da lui stesso fondata.
La nostra storia si conclude con Street Fighter III, ancora oggi considerato da molti fan come uno dei vertici più alti raggiunti dalla grafica bitmap e, anche, dalla tecnica applicata al picchiaduro in 2D nella sua ultima incarnazione.
Eppure, nonostante la forza bruta in ambienti bidimensionali offerta dalla nuova scheda CPS III, non si trattò di un parto facile. Siamo nel 1997.
Orfana del team alle prese con il secondo episodio, ormai elevato in tutte le sue incarnazioni a modello di gioco perfetto, Capcom affida il progetto di Street Fighter III: The New Generation a Tomoshi Sadamoto chiamato a resettare l’intero universo e ripartire da zero, con nuove meccaniche e, soprattutto, nuovi combattenti.
Niente Ryu? Niente Ken? Bestemmia!
La voce comincia a circolare e, in giro per il mondo partono vere e proprie proteste contro Capcom. In una Grande Rete ancora agli albori, fu abbastanza per fare parziale marcia indietro e ritornare sui propri passi.
Tempo fa, utilizzando il suo account Twitter, Akira “Nin Nin” Nishitani ha condiviso con i fan alcuni simpatici aneddoti sullo sviluppo di Street Fighter II. Secondo Nishitani, l’art director Akira Yasuda era “estremamente attento nella resa delle calze di Chun-Li, finì per ridisegnare gli sprites circa 3 volte. A causa di ciò, abbiamo avuto problemi di memoria. È stato un momento difficile”,ha raccontato lo sviluppatore che poi rivela un altro particolare. “Gli Hadoken rossi nel primo
SF2 non erano un glitch, ma un Easter Egg messo intenzionalmente”.
Ryu e Ken vengono riassoldati in fretta e furia, ma attorno a loro è tutto diverso. Diversi i combattenti, diverso lo stile grafico, diverso il gameplay che poggia in maniera importante sull’introduzione delle Parry, una sorta di parata dinamica che, al netto di una tempistica perfetta nella sua esecuzione, garantivano un potente e letale contrattacco.
L’accoglienza nelle sale giochi, che cominciavano ad entrare nella loro parabola discendente, fu tiepida. Talmente tiepida che Capcom, nel giro di poco tempo, propose due nuove versioni del titolo
La prima, Street Fighter III: 2nd Impact (1997), introduce nuove meccaniche di gioco e nuovi personaggi, segnando, per altro, il ritorno di Akuma. Non è però abbastanza e, nel 1999, Capcom chiude un secolo di successi con Street Fighter III: 3d Strike.
Ritorna Chun Li e, soprattutto, ritorna quel magico equilibrio degli scontri all’interno di una struttura tecnica, ma assolutamente appagante, che cristallizza la visione originale degli sviluppatori.
Detto delle Parry, ogni personaggio ha a disposizione tre Super Arts da scegliere all’inizio del match, da utilizzare dopo il riempimento della barra apposita.
A queste si sommano, poi, le Ex Moves, versioni “potenziate” delle mosse speciali.
Spariscono le Parry aeree, ma tornano le Taunt, le “provocazioni” nei confronti dell’avversario
Il risultato, nonostante un roster sicuramente meno carismatico rispetto al secondo capitolo, è quello di un picchiaduro vicino alla perfezione, ancora oggi venerato per il suo gameplay e per le sue caratteristiche.
Le sale giochi cominciano a svuotarsi, sul mercato si affacciano nuovi competitor, in gran parte 3D, e il titolo, nonostante il plauso della critica e dei pro, non riuscirà mai ad entrare nel cuore del grande pubblico come fatto dal suo predecessore.
La nostra storia, allora, per ora finisce qui. Tra scatoloni impolverati contenenti magliette, bracciali, poster e gadget tramandati da un’epoca segnata per sempre da quell’uragano che fu Street Fighter II.
Un fenomeno di costume, prima ancora che un videogioco, destinato a restare nei sogni lucidi dei fan, una sorta di San Junipero videoludica, quel luogo virtuale dove rifugiarsi tra i ricordi della giovinezza – che, come noto, si fugge tuttavia – e gli odori di un’industria diversa nei tempi e nei ritmi.