Premessa: questo articolo, nella seconda metà, contiene spoiler del primo e del secondo The Last of Us; troverai l’avviso a chiare lettere. Fino a quel punto, può essere letto tranquillamente anche da chi non ha giocato i due titoli.
Ci siamo.
Dopo una lunga attesa, probabilmente eccessiva, dopo i rinvii, i ritardi, le polemiche, lo shitstorm, metacritic e chi più e ha più ne metta, finalmente The Last of Us Part II ha fatto l’ingresso nella mia console.
Raramente, per non dire mai, negli ultimi 4 anni ho atteso un gioco così tanto, dopo quello che è stato per me il primo The Last of Us e per la grande ammirazione che da sempre nutro per Naughty Dog e Neil Druckmann.
Sapevo bene che, in un modo o nell’altro, una volta finito il gioco avrei dovuto PER FORZA scriverci qualcosa per iCrewPlay, sapevo che non sarei riuscito a sottrarmi, e per la gioia di grandi e piccini eccomi qua. E la prima cosa che mi viene da dire, che nasce spontanea è che The Last of Us Part II è un gioco “brutto”.
Chiuso. Definitivo. Possiamo andare tutti a casa.
Oppure possiamo rimanere qua, e tentare di spiegare in che modo definire un gioco “brutto” possa qualificarlo ad uno standard di qualità ludico-narrativa che fino ad ora non si era mai vista in un videogioco.
Ma per fare questo, dobbiamo prima cercare di capire assieme come si è evoluto il medium videoludico in questi ultimi 3 lustri, il modo in cui Naughty Dog ha saputo ottimamente interpretare questa evoluzione, l’impossibile rapporto/paragone che si è via via cercato di costruire nel tempo con il mondo del Cinema e perché tutto questo ci porta a sentenziare che l’ultima opera della software house che ha dato i natali a Crash Bandicoot è talmente bello da poterlo definire “brutto”.
Cominciamo.
Le origini
Chi è nel mondo dei videogiochi da tempo come il sottoscritto, un giovane ragazzo di 40 anni, può a ragion veduta avere una panoramica abbastanza completa di quello che è stato questo ambito praticamente dalla sua nascita fino al giorno d’oggi.
Parliamo delle primissime esperienze che vedevano un bambino grasso di 6 anni incuriosito dai quei pixel in bianco e nero che si muovevano sul tv color (rigorosamente in bianco e nero) della metà degli anni ’80 ma che già sapevano restituire indietro una piccola magia. Quella magia che seppi, anni dopo, portava il nome di Pong.
Gli anni passavano e con essi la passione tanto lentamente quanto inesorabilmente e inconsciamente cresceva come una piantina, “innaffiata” da sistemi chiamati Commodore 16 prima, e 64 dopo.
Ai quei tempi i giochi (o come li ha sempre chiamati mia mamma, “giochini”) erano sprite grafici più o meno riconoscibili e di pochi colori che si muovevano su schermo, talvolta cercando di distruggere un altro sprite più o meno riconoscibile, altre volte inseguendo una massa di pixel che con non poca fantasia si poteva definire “pallone da calcio”.
Insomma, a quei tempi cercare di trovare elementi narrativi in quei “giochini” era esperienza ardua anche per il più creativo dei bambini (grassi o meno).
Qualche passo in avanti in più in questo senso lo rileviamo a cavallo dei (mitici) anni ’90, quando le MOSTRUOSE console a 16bit iniziano a farsi largo nel mercato: Mega Drive prima e Super Nintendo dopo accompagnano i miei pomeriggi di giovane ragazzo tra un Sonic, un Castle of Illusion, uno Street Fighter 2 e un Super Mario Kart.
Con il progredire della tecnologia anche la struttura dei giochi inizia ad assumere contorni leggermente più complessi, malgrado una vera e propria narrativa ancora venga riservata a qualche rpg di stampo prettamente giapponese.
Personalmente, ricordo con grande affetto l’ottima trasposizione su Super Nintendo della prima trilogia di Star Wars, in cui oltre alla struttura multievento (così venivano definiti al tempo quei particolari giochi in cui facevi cose diverse, tipo controllare un personaggio stile Metroid e subito dopo guidare un X-Wing durante l’attacco alla Morte Nera) veniva ereditato una sorta di racconto che però traeva le sue orgini nei film originali, e che quindi non aveva nulla di creato da zero dagli sviluppatori.
I primi veri sviluppi della narrativa nei videogiochi
Arriviamo così alla seconda metà dei (sempre mitici) ’90, e qui assistiamo a quella che tuttora ritengo la più grande innovazione dell’ambito videogiochi dai tempi forse della creazione del pad, ovvero l’avvento della grafica poligonale.
Avevo poco più di 15 anni e ricordo ancora come fosse ieri le sensazioni di stupore/misto a meraviglia/misto sorpresa di quelle prime immagini riprodotte dall’indimenticabile disco “Demo uno” che veniva regalato in bundle con la prima PlayStation.
Fino ad allora eravamo abituati a personaggi che si muovevano su e giù, in maniera più o meno fluida, più o meno credibile, per uno schermo, ma quel “Demo uno” cambiava completamente le carte in tavola e ci consegnava qualcosa che fino ad allora (nei miei occhi di quindicenne) pensavo non potesse essere possibile: la grafica poligonale rendeva i personaggi sullo schermo vivi, quasi reali, a tal punto che sembrava impossibile che quanto passava davanti agli occhi potesse essere realmente riprodotto da un tv casalingo.
Questa vera e propria rivoluzione, ovviamente, si sarebbe tradotta in una maggiore complessità del game design e, ovviamente, anche della struttura narrativa, perché d’ora in poi sarebbe stato sicuramente più facile ma soprattutto CREDIBILE poter raccontare una storia mediante un videogioco e che soprattutto potesse arrivare a tutti, non solo agli appassionati di rpg giapponesi.
In questo senso, uno dei primi esempi, nonché tra i più famosi, che mi salta alla memoria è certamente quel Resident Evil che non solo ti calava in un’atmosfera che fino a quel momento era appannaggio solamente dei film horror, ma addirittura ti permetteva di viverla in prima persona, decidendo tu cosa fare e come farla, cercando di rimandare per quanto possibile lo spettro di una morte che, in ogni caso, prima o poi avrebbe comunque fatto capolino dietro le tue spalle.
Quello per me è stato il primo esempio di come il videogioco non solo fosse in grado di intrattenere, non solo fosse in grado di divertire, ma fosse anche capace di raccontare una storia, una serie di eventi in cui tu eri protagonista e ne decidevi gli svolgimenti, sempre ovviamente all’interno dei limiti imposti dal videogioco. Un mondo talmente credibile da impedirmi di fatto di poter giocare a quel Resident Evil da solo, di notte e al buio, come richiesto ai più temerari…
Insomma, nel giro di pochi anni il videogioco aveva cambiato paradigma, un salto di qualità che non poteva e non doveva essere circoscritto solamente ad un banale “miglioramento tecnico”, ma che si espandeva in maniera proporzionale all’espansione delle sensazioni e delle emozioni che era in grado di scatenare nel suo fruitore.
Va da sé che, a quel punto, i limiti della narrativa non si potevano più scontrare con il limite imposto dalla tecnologia, ma solamente con la creatività dello sviluppatore. E da quel momento, per l’appunto, il ruolo della narrativa inizia a farsi largo con prepotenza nei titoli che anno dopo anno andavano a svilupparsi, e di tanto in tanto veniva fissato un nuovo standard.
Impossibile non citare, ad esempio, il ruolo che Half-Life ebbe in quegli anni, per la precisione 1998, in termini di narrazione nel videogioco, dal momento che per la prima volta questo elemento faceva il suo fragoroso ingresso anche nel mondo degli sparatutto in prima persona, portando ad evoluzione un genere che fino a quel momento era poco più di un spara-evita-spara-evita.
Si può dire che, da quel momento, il racconto in quanto tale veniva definitivamente sdoganato anche in quei generi in cui sembrava non se ne sentisse la necessità.
L’epoca PlayStation 2/Xbox ha in questo senso conosciuto una vera e propria età dell’oro: i videogiochi cominciavano ad acquisire sempre più maturità e complessità, e proprio in quegli anni si iniziano timidamente a proporre legami tra questo mondo e quello del Cinema. In questo senso, un ruolo di grande importanza lo ha certamente avuto Hideo Kojima, che con la saga di Metal Gear Solid, soprattutto con il suo secondo capitolo, per via della presenza di lunghe sequenze di intermezzo si incomincia ad avere un’idea di come questo connubio possa non essere dopotutto così azzardato.
Dalla prima metà degli anni 2000, insomma, la narrativa prende definitivamente piede in diversi generi, ed è un aspetto a cui gli utenti iniziano a dare sempre maggiore importanza nella fruizione di un videogioco. Una lenta e costante crescita, che negli ultimi 10 anni ha conosciuto vette di vera e propria eccellenza.
La nuova dimensione del racconto
La generazione PlayStation 3/Xbox 360 incarna perfettamente questo concetto, ed è proprio in questo momento storico che vediamo la nascita di alcuni tra i migliori esponenti di questa nuova concezione. Tra questi, impossibile non mettere sui gradini più alti di un ipotetico podio un team di sviluppo con un nome e un cognome ben precisi: Naughty Dog.
Sebbene il celebre team di sviluppo sia salito agli onori della cronaca a fine anni ’90 con un gioco che di narrativo ha ben poco, quel Crash Bandicoot che conobbe le sue fortune su PlayStation, è con la settima generazione di console che Naughty Dog trova la sua maturazione definitiva e con essa probabilmente la sua vera ragion d’essere, elevando a livelli di eccellenza quel connubio tra videogioco e narrazione come mai fatto prima d’ora.
Il primo timido tentativo lo abbiamo su PlayStation 3 con Uncharted: titolo action/adventure molto incentrato sull’azione con una storia però raccontata ancora in maniera piuttosto superficiale. E’ con il secondo capitolo che questo concetto esplode letteralmente, consegnando al mondo un mix perfettamente riuscito tra un Tomb Raider e un Indiana Jones, con i confini tra Cinema e videogiochi che se fino a quel momento si erano toccati o al massimo incrociati, per mezzo di Uncharted 2 trovano una nuova, spettacolare dimensione.
Il seguito fu un tripudio di tecnica e narrativa, con l’aggiunta di una spettacolarità che rendeva il gioco splendido da vedere e divertentissimo da giocare, con una storia raccontata in una maniera così dinamica e senza praticamente tempi morti da poter essere lecitamente paragonata ad un colossal d’azione degno di Hollywood.
Insomma quello di cui fino a quel momento si era solamente parlato, Naughty Dog lo aveva creato, e lo aveva fatto splendidamente. Niente innovazioni clamorose, niente di qualcosa che in un qualche modo non esistesse già, ma una serie di elementi portati al massimo del loro potenziale incredibilmente mescolati tra di loro e capaci di ottenere un risultato finale rimasto ineguagliato per anni.
Con delle simili premesse, si poteva solo immaginare quello che i ragazzacci che diedero i natali anche alla saga di Jak and Daxter sarebbero stati capaci di fare da lì a pochi anni: fino a che punto sarebbero riusciti a spingersi? Quale altro step sarebbero stati in grado far compiere alla narrativa nel mondo videoludico?
A queste e altre domande si ebbe una prima embrionale risposta il 10 dicembre 2011, quando Naughty Dog annunciò un nuovo titolo in esclusiva PlayStation 3 intitolato The Last of Us, una sorta di action/avventure a tinte horror ambientato in un universo post apocalittico in cui un fungo noto come “cordyceps” aveva trasformato gran parte degli esseri umani in spaventosi e famelici zombi.
Il gioco uscì il 14 giugno del 2013, e subito ci si rese conto che avevamo a che fare non solo con un capolavoro, ma con un nuovo paradigma della capacità narrativa connessa al videogioco. Quella narrata in The Last of Us è una storia se vogliamo non originalissima, raccontata però con una forza ma allo stesso tempo con una delicatezza che raramente si era vista prima in un videogioco. Il rapporto padre/figlia che con il tempo si viene a creare tra i due personaggi, la brutalità del mondo circostante, il peso delle scelte da compiere sono alcuni tra gli elementi che hanno reso l’opera diretta da Neil Druckmann quanto più vicina al modo in cui gli eventi vengono raccontati all’interno di un film.
Insomma, quel confine toccato e intrecciato da molti, finalmente si poteva dire superato?
A questo domanda si può provare a dare una risposta, che tuttavia ritengo non potrà mai essere considerata definitiva. E questo, per un semplice (direi quasi banale) motivo: l’interazione.
Se un film può coinvolgere al massimo i nostri sensi per quanto e come viene raccontato attraverso di esso, è evidente che si scontra con quel limite che invece contraddistingue il videogioco, ovvero il fatto di poter interagire con ciò che vediamo.
Risulta in questo senso impossibile porre i due media su un livello in grado di paragonarli, perché manca il presupposto fondamentale. Quello che possiamo fare è cercare di comprendere come all’interno di ciascun contesto viene gestita la narrazione. Se nel Cinema è l’elemento fondamentale, quello che a prescindere dal genere è in grado di far apprezzare un’opera o meno, nel videogioco è una parte di sicura importanza, ma che deve in qualche modo coesistere con una forma più o meno elaborata di gameplay.
L’interazione è la vera discriminante.
—SPOILER—
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Perché The Last of Us Part II è un gioco “brutto”?
E qui, arriviamo al concetto che abbiamo esposto inizialmente: The Last of Us Part II è un gioco “brutto”.
Si, perché il titolo uscito il 19 giugno 2020 stravolge gran parte di quello che abbiamo raccontato fino al primo capitolo della saga, ribaltandolo e rinnovandolo, con la stessa brutalità con la quale ci abbandona all’interno di un mondo popolato da zombi che vorrebbero averci come portata principale del loro pasto.
Nell’ultima opera Naughty Dog, infatti, non siamo più qui a commentare un nuovo paradigma di narrazione, o almeno non soltanto, perché uno dei tantissimi pregi del titolo è quello di “costringere” il giocatore a trovarsi faccia a faccia non solo con una nuova concezione di narrativa, ma collegata ad essa con una nuova concezione di interazione. E questa nuova concezione, all’interno dell’avventura che vede Ellie protagonista, non è sempre propriamente “bella”, “piacevole”, “divertente”. O almeno non come potremmo superficialmente considerarla. Il nuovo concetto di narrazione creato dal team guidato da Neil Druckmann ti sbatte in faccia il tuo doverti confrontare con situazioni nuove e spesso anche spiacevoli, che solo chi ha provato il gioco può comprendere e tentare di spiegare, come in maniera approssimativa e lacunosa sto cercando di fare io.
Da giocatore con alle spalle decenni di “carriera”, mai prima d’ora avevo provato vero e proprio disagio nell’interagire con un gioco, quantomeno con un gioco che mi stesse piacendo tantissimo, e questo paradosso mi è capitato proprio con The Last of Us Part II.
Un primo esempio è quando ci troviamo controllare il personaggio di Abby: facciamo la sua conoscenza nel modo peggiore, ovvero nelle vesti del carnefice di Joel, che viene ucciso nella maniera più brutale possibile, davanti ad una disperata Ellie.
Risulta pertanto evidente che una certa sensazione di fastidio inizia a farsi largo quando vestiamo i panni di questa boia al femminile, con lo scopo di farla sopravvivere. Ma ovviamente, quella sensazione di fastidio è non solo voluta, ma essenziale per meglio comprendere il nuovo paradigma in termini di narrazione che Naughy Dog sta portando avanti.
Ma come? Devo procedere nell’avventura con questo perfido personaggio?!?
E’ questo uno degli interrogativi che viene spontaneo porgersi nei primi minuti.
Interrogativi che aumentano quando addirittura ci troviamo a dover combattere contro Ellie, l’eroina, la ragazza in cerca di vendetta nei confronti di chi ha ucciso senza pietà la persona più importante per lei, e fondamentale per noi appassionati che avevamo adorato il primo episodio. No caro Druckmann, questo è troppo. Non mi puoi spingere a così tanto…
E invece lo fa, e in una maniera talmente efficace da riuscire a conferire nuovo significato alla parola divertimento, che a questo punto non fa più rima (solo) con spensieratezza, ma che allarga i suoi significati verso territori mai conosciuti prima d’ora e che coinvolgono anche le nostre sensazioni di appartenenti alla razza umana, detto questo senza timor di iperbole.
Ad ogni tasto premuto corrisponde un colpo inferto non solo ad Ellie, ma anche ad alcune parti più recondite della nostra coscienza.
Ci vediamo costretti a colpire qualcuno, e questo ci restituisce sensazioni sgradevoli e sconosciute.
Senza quasi accorgercene, siamo di fronte ad un nuovo paradigma di narrazione in ambito videoludico.
Ma il vero capolavoro in questo senso, Druckmann ce lo regala nell’epico e drammatico scontro finale, quando tutte le sensazioni di cui abbiamo parlato sopra, esplodono in tutta la loro luccicante chiarezza: una Ellie disperata e con le mani al collo della (ex) perfida Abby la sta per annegare, ma ora lo scenario è completamente ribaltato e se mentre prima ci infastidiva controllare un personaggio inizialmente ritenuto negativo, l’efficacissimo svolgimento degli eventi raccontati ci ha consegnato una rinnovata empatia nei confronti di Abby, a tal punto da essere “costretti” ad ucciderla non volendolo fare, in un contrastante vortice di emozioni che si agita tormentato nel nostro animo di videogiocatore. Un qualcosa di nemmeno lontanamente visto prima.
Non può che essere dunque accompagnato con un liberatorio sospiro di sollievo l’ultima scena dell’acceso confronto tra le due giovani donne, quando Ellie, in seguito ad una breve immagine di Joel che le salta agli occhi ormai quasi completamente oscurati dall’odio e dalla sete di vendetta, decide di non superare quel confine che separa ancora gli essere umani da quei mostri con cui si trova a combattere ogni giorno, dando così ulteriormente significato al titolo del gioco, in cui rimanere “gli ultimi di noi” è l’unica via possibile per mantenere quel poco di necessaria umanità.
Ecco quello che fa di The Last of Us Part II un gioco “brutto”: il suo essere concettualmente nuovo, diverso, in un’interazione che smuove sentimenti nuovi e per lo più sconosciuti fino a quel momento in un videogiocatore, per il quale il disagio, il fastidio e la confusione non erano soliti accompagnare le avventure del protagonista di turno, quantomeno non con tale efficace narrativa.
Quindi, in conclusione, cosa ci lascia The Last of Us Part II? Qual è la sua eredità?
Beh, di sicuro si parla di un’eredità pesante, con cui tanti giochi che vorranno guadagnarsi il titolo di “capolavoro” soprattutto in ambito narrativo dovranno fare i conti.
Come già successe con il primo episodio della saga, anche il seguito setta nuovi standard, in un’opera seminale e di cui si parlerà ancora per tanti anni a venire, per la quale a Naughty Dog e Neil Druckmann non possiamo che dire grazie.