World of Warcraft è un RPG, anzi, probabilmente è il gioco di ruolo per eccellenza nella storia dei videogame. Ambientato in un mondo fantasy con elfi, orchi e draghi il gioco offriva la possibilità di creare un personaggio a proprio gusto.
Si poteva lanciarlo in battaglia o all’avventura da solo, con amici o alleati incontrati nel gioco; parlare, scambiare, commerciare, imparare, andare a caccia e fare nuove amicizie o alleanze. Insomma era (ed è) una simulazione sempre più realistica delle interazioni sociali della vita vera, magia a parte ovviamente.
Diversi studi di altrettanti ricercatori hanno analizzato spesso giochi online come World of Warcraft, analizzandoli per capire dinamiche di socializzazione, il funzionamento dei gruppi e i meccanismi della società in un ambiente controllato.
Il 13 settembre 2005 viene rilasciato un aggiornamento, Rise of the Blood God che includeva il raid Zul’Gurub, un’attività per un massimo di 20 giocatori di livello massimo. Qui i personaggi più potenti potevano tentare di combattere Hakkar, temibile drago che se attaccato rispondeva con l’incantesimo “corrupted blood“.
Infezione
Questa magia era responsabile di sottrarre costantemente i punti vita del bersaglio e contagiare i suoi compagni, finendo per diminuire inesorabilmente anche la loro vita. Ovviamente l’effetto avrebbe dovuto essere temporaneo, terminando una volta abbandonato l’area, ma non fu così.
Per colpa di un bug, un’errore nella programmazione, il malus non poteva essere rimosso in alcun modo, nemmeno dopo la morte e resurrezione del personaggio. La “squadra Zero” infatti, una volta terminato il primo scontro fece ritorno in una delle città più popolose di World of Warcraft, portando con sè l’infezione.
Diffusione
Da qui in poi la storia è piuttosto intuibile; il virus non cessava il suo effetto, e si propagava ad ogni giocatore vicino, contribuendo alla sua diffusione. Di lì a poco, “Corrupted Blood” sarebbe stato un malus che avrebbe infettato moltissimi giocatori.
Se per i giocatori più esperti e forti era un male appena percepibile, i personaggi più deboli, non essendo in grado di rimediare alla vita in costante (200-300hp al secondo) diminuzione perivano, e quando venivano rianimati, mantenevano gli effetti di “Corrupted Blood”.
La società di World of Warcraft reagì in diversi modi; i più responsabili si misero in “quarantena” evitando di giocare finchè Blizzard non avesse pubblicato una patch per eliminare il bug. Altri invece entravano volontariamente nelle “zone rosse” per vedere gli effetti del contagio, divenendo vettori del bug. Altri ancora scelsero di isolarsi evitando le grandi città, finendo con il portare il virus nei piccoli centri dove non era ancora arrivato.
Vennero improvvisati dei centri d’assistenza dove personaggi dotati di incantesimi di cura cercavano di rimediare al virus, finendo per contagiarsi a loro volta. Venne anche il turno di NPC e animali che divennero portatori asintomatici di “corrupted blood” contribuendo a diffondere ulteriormente l’epidemia in World of Warcraft.
La cura
Blizzard tentò diversi approcci per arginare e correggere l’errore, anche invitando chi non avesse preso “Corrupted Blood” a rimandare il login fino alla patch risolutiva. Alla fine non vi fu altra soluzione se non quella di resettare i server e riportare World of Warcraft a prima della pandemia.
Ora sappiamo bene che un gioco per realistico che possa essere resta un gioco, limitato dal vetro dello schermo e incatenato al codice binario dal quale è composto. Altrettanto chiare sono però le similitudini con la pandemia di Covid-19 che stiamo affrontando.
Durante il dilagare del virus di World of Warcraft, tra i tanti giocatori interessati al MMORPG di Blizzard giocava anche Eric Lofgren, un epidemiologo e docente universitario che si occupava di modelli di comportamento e statistica.
Gli studi su World of Warcraft
Affascinato dal fenomeno in corso, Lofgren collaborò con Nina Fefferman, biologa ed evoluzionista; insieme pubblicarono nel 2007 uno studio su Lancet Infectious Disease (una rivista medica specializzata) discutendo i modelli di comportamento che avevano interessato la crisi di World of Warcraft qualche anno prima.
Questa epidemia venne osservata ed analizzata anche da diversi altri ricercatori; ne discussero gli effetti infatti l’università di Berheva (Israele) dove venne lanciato un’ipotesi di sfruttare MMORPG per valutare le variabili in casi di epidemie. Lo stesso CDC a stelle e strisce richiese a Blizzard ogni dato relativo all’epidemia di World of Warcraft per usarli come modelli di studio.
Anche diverse agenzie ed esperti anti-terrorismo (Center of Terrorism and Intelligence Studies e Stuart Gottlieb, Yale University) studiarono gli eventi legati alla pandemia, comprendendo il potenziale dato da una simulazione di questa portata in caso di minaccia da agenti patogeni e i modelli di comportamento umani.
Lo schema si ripete
In questi periodi abbiamo già visto una rapida diffusione del Covid-19, che ha valicato paesi e continenti. I più anziani e deboli sono diventati i personaggi più bassi di livello, più sensibili al coronavirus, spesso in maniera tragica.
Gli studi e le osservazioni tratti dall’incidente di World of Warcraft sono stati rilevanti nello studio delle dinamiche di comportamento umano in situazioni simili. Sappiamo bene per esempio che se logicamente avrebbe senso rispettare i divieti imposti dai governi e il distanziamento sociale come metodi di contrasto alla diffusione, non tutti la pensano allo stesso modo.
Esiste chi ignora la pericolosità del virus, viaggiando e ignorando le misure di sicurezza, trasformandosi in un vettore di contagio; ci sono state anche situazioni di fuga dalle grandi città per rifugiarsi in centri urbani minori, dove il virus è giunto grazie a queste “migrazioni”.
La storia insegna a non ripetere gli stessi errori, ma a quanto pare, anche i videogame possono dire la loro. La ricerca è avanzata molto grazie ad avvenimenti come questo; l’epidemia di World of Warcraft, i dati raccolti con Sea Hero Quest.
I videogame dunque non solo sono una base di socializzazione e un perfetto “osservatorio” del comportamento umano, ma sono stati utili in più occasioni come strumento di studio su catastrofi da cui potremmo uscire facilmente, se solo l’uomo avesse più punti intelletto.